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Bulgaristan*: prima di entrare, toglietevi le scarpe

Un approfondimento sul paese dell'est Europa che dal 2007 fa parte dell'Ue. Tra gruppi armati e paramilitari che pattugliano i confini e detenzioni illegittime dei richiedenti asilo

Quando è stato ritrovato morto il 13 luglio scorso in un bosco vicino Karacadağ, paesino turco prossimo al confine con la Bulgaria, Reka Hassani, ragazzo iraniano di 28 anni, non portava le scarpe. L’autopsia a cui è stato sottoposto il suo corpo, che presentava graffi sulle braccia e sui piedi, ha rivelato come il giovane fosse morto d’inedia, dopo esser sopravvissuto per cinque giorni senza cibo né acqua. La famiglia, sparsa fra l’Iran e uno degli innumerevoli campi per migranti della Grecia, appresa la notizia della morte di Reka è riuscita a contattare un’attivista turca, la quale ha accettato di aiutare i familiari nelle procedure burocratiche necessarie a far rientrare la salma in Iran. Dopo qualche settimana, la famiglia di Reka ha finalmente riavuto il corpo. L’obiettivo o, chissà, il sogno di Reka era lo stesso degli altri diecimila migranti provenienti soprattutto da Africa, Medio Oriente, Afghanistan e Pakistan che dal 2014 hanno perso la vita nel Mediterraneo: raggiungere l’Europa. Reka, però, non è morto in mare, ma perso fra i monti tra Turchia e Bulgaria. E’ morto per aver osato mettere piede in un paese che dal 2007 fa parte dell’Unione europea.   
 

Che fine hanno fatto le scarpe di Reka?

Non è chiaro se a respingere Reka in Turchia sia stata la polizia di frontiera bulgara o uno dei gruppi che pattugliano il confine con pistole, fucili e coltelli, come i paramilitari dell’Unione Militare Bulgara “Vasil Levski” e del Movimento Nazionale Bulgaro “Shipka”. Questi gruppi, composti secondo alcune fonti da addirittura ottocento membri, sono talvolta supportati da “volontari” provenienti da altri paesi, come dimostra la recente spedizione squadrista dell’ex vice-leader di Pegida Tatjana Festerling e del leader della sezione olandese del movimento Edwin Wagensveld. Questi gruppi paramilitari, a cui si aggiungono sovente cacciatori di animali tramutatisi per l’occasione in cacciatori di essere umani, agiscono talvolta in cooperazione con la polizia di frontiera bulgara. Non mancano, poi, “salvatori della patria” solitari, come dimostra l’emblematico “caso Dinko”: un ex wrestler al quale la tv nazionale bulgara ha dedicato un servizio intitolato “Dinko – supereroe” per celebrare il suo arresto “a mani nude” di un gruppo di una ventina di migranti, avvenuto mentre pattugliava il confine con il suo quad.   

In Bulgaria la caccia al migrante sembra andare di moda anche tra le organizzazioni non governative, come l’Organizzazione per la Protezione dei Cittadini Bulgari (OPBC), che oltre a organizzare tornei sportivi e campagne di rimboschimento, pattuglia il confine per «proteggere le donne e la fede». Lo scorso aprile, dopo aver fermato e consegnato alla polizia un gruppo di ventitré migranti,  il gruppo ha ricevuto un premio dal commissario capo della polizia di frontiera Antonio Angelov per il lavoro svolto, nonché parole di elogio da parte del primo ministro Boyko Borissov: «Lo Stato appartiene a tutti, chiunque aiuti merita gratitudine». Esponenti dell’OPBC avevano precedentemente arrestato tre migranti afgani, ammanettandoli con fascette elastiche e filmando l’impresa. Si è poi scoperto che il gruppo aveva tentato di derubare i tre malcapitati.   

Moltissimi migranti hanno riportato di essere stati picchiati e derubati al confine tra Turchia e Bulgaria, spesso dalla stessa polizia di frontiera che avrebbe dovuto informarli del loro diritto a richiedere asilo. Non sorprende quindi che Reka, oltre alle scarpe, non avesse più con sé neanche il suo smartphone, con il quale avrebbe potuto chiedere aiuto e, con buone probabilità, salvarsi. L’importanza degli smartphone per i migranti è molto spesso quantificabile con la loro stessa vita, come dimostra, per esempio, il progetto Alarm Phone 1. Sia le scarpe che lo smartphone di Reka non sono ancora stati ritrovati e probabilmente mai lo saranno.    

Reka non è stato il primo a morire al confine tra la Bulgaria e la Turchia e verosimilmente non sarà l’ultimo. Il 12 marzo 2015, per esempio, Dalil Murad Ilyas, 35 anni, e Mohammed Jawad Kadhim, 30, sono morti per ipotermia dopo essere stati picchiati e rispediti al di là del confine dalla polizia di frontiera bulgara. A Ilyas, uno dei due uomini curdi yazidi, la polizia aveva fratturato una gamba, impedendogli di fatto di camminare. Un suo amico lo ha trascinato per cinque chilometri, finché ha potuto, prima di abbandonarlo momentaneamente per andare a chiedere aiuto. Ma la sua sorte è stata simile a quella dell’altro suo compagno di viaggio Kadhim, anche lui picchiato e rimasto steso al suolo ad attendere la morte.   

E se Reka ce l’avesse fatta?

Se Reka fosse riuscito ad addentrarsi per qualche chilometro in territorio bulgaro, evitando i gruppi sopra descritti e i push-back sistematici della polizia (che avvengono in completa violazione del principio di non-refoulement), avrebbe avuto davanti a sé due scelte, le stesse di ogni altro migrante che approda via mare in uno dei paesi dell’Europa meridionale: proseguire il suo viaggio “in incognito” verso qualche altro paese europeo, cercando di non farsi catturare dalla polizia, o chiedere asilo in Bulgaria, “accettando” così di sottostare alle procedure del Regolamento di Dublino, che avrebbero potuto rispedire Reka in Bulgaria indipendentemente dallo Stato dell’UE che avesse raggiunto in futuro.    

Nel primo caso Reka avrebbe dovuto affidarsi a un trafficante che, per una somma tra i seicento e i novecento euro, lo avrebbe condotto in Serbia, da dove avrebbe poi proseguito il suo viaggio. Se invece avesse deciso di presentare domanda d’asilo in Bulgaria o, catturato dalla polizia, vi fosse stato praticamente costretto, Reka sarebbe finito per mesi, se non anni, in uno dei sei bejanski lager (campi rifugiati2) sparsi per il paese, in attesa di un più che probabile respingimento della sua domanda. Nel 2015, infatti, se si escludono le procedure terminate 3 a causa della mancata presenza del richiedente asilo ai colloqui con l’Agenzia Statale per i Rifugiati (SAR), meno del 2 per cento dei migranti iraniani che ne ha fatto richiesta si è visto riconoscere lo status di rifugiato o lo status umanitario, forma di protezione sussidiaria. Ancora peggio è andata ai richiedenti asilo afgani (0,1%) e pakistani (0%). Non molto meglio agli iracheni (2,5%) o a coloro che provenivano da paesi africani (4,7%). Quasi il 76% dei siriani, invece, si è visto garantire una di queste due forme di protezione internazionale. Analizzando queste percentuali è difficile non sospettare dell’adozione diffusa, da parte dell’autorità bulgara competente, di un criterio di valutazione delle domande che tenga conto più della nazionalità del richiedente asilo che non delle circostanze particolari che lo hanno indotto a lasciare il proprio paese. L’adozione di questo criterio di valutazione, se confermata, sarebbe in contrasto con la natura soggettiva del diritto d’asilo, sancita dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951, che la Bulgaria ha ratificato nel 1992 assieme al relativo Protocollo di New York del 1967.   

Questo lungo periodo d’attesa in un centro d’accoglienza avrebbe potuto spingere Reka a rivolgersi, di nuovo o per la prima volta, a un trafficante. Va sottolineato come l’atteggiamento della polizia bulgara, così aggressivo al confine con la Turchia, sia a volte ambiguo altrove, in particolare al confine con la Serbia.

In Bulgaria al business dei migranti, secondo un modello non molto diverso da quello collaudato da Buzzi, Odevaine e Carminati in Italia, partecipano, infatti, anche vari impiegati dello Stato. Ne è la riprova il recente caso del capo della polizia di frontiera Antonio Angelov (sì, lo stesso del premio consegnato al gruppo di cacciatori di migranti sopracitato), che è stato costretto alle dimissioni per aver apparentemente favorito un cittadino bulgaro, già accusato di traffico di essere umani, nella gara d’appalto per l’assegnazione del servizio di trasporto dei migranti verso i centri d’accoglienza. Lo riconferma il precedente licenziamento del direttore della SAR, colpevole di aver favorito un amico nella concessione dell’appalto per la fornitura dei pasti nei medesimi centri.   

Il cibo scarso e di pessima qualità che viene somministrato in questi centri è un ulteriore elemento utile a comprendere il livello di priorità assegnato dal governo bulgaro all’accoglienza dei migranti. Le persone che vivono in queste strutture fatiscenti spesso gettano il cibo a terra per protesta, rendendo l’aria irrespirabile nei corridoi che dividono le anguste stanze in cui dormono, in alcuni casi, fino a venti persone.  Cibo che tuttavia sono costretti a mangiare coloro che non hanno i mezzi necessari per sostentarsi altrimenti, visto anche il taglio totale, deciso dal governo lo scorso anno, dei miseri trentatré euro mensili di pocket money che i richiedenti asilo ricevevano. Cibo che, per qualche strano processo di italianizzazione, i migranti e il personale che lo distribuisce chiamano “mangia”, stesso nome di un vecchio videogioco degli anni Ottanta, in cui lo scopo del giocatore era tirare a un gatto e a un cane la pasta servitagli, mentre ingerirla portava  alla sua morte.   

Ma l’idea che il governo bulgaro, e una buonissima parte di chi da questo ha scelto di farsi governare, ha dell’accoglienza di persone provenienti da paesi non-UE e non-a-maggioranza-cristiana è riassunta ancor più amaramente dai nomi (ereditati dai quartieri periferici nei quali sorgono) dei tre centri d’accoglienza di Sofia: Vrajdebna, Voenna Rampa e Ovcha Kupel in italiano suonano più o meno così: “Ostile”, “Rampa Militare” e “Sorgente delle Pecore”.   
 

Di distribuzioni e case speciali

Per presentare domanda d’asilo, e prima di finire in un centro d’accoglienza, Reka avrebbe dovuto passare qualche giorno nel “centro di distribuzione” di Elhovo, vicino al confine con la Turchia, dove un medico si sarebbe accertato che non fosse stato portatore di malattie infettive. Se invece fosse stato meno fortunato 4, Reka sarebbe stato condotto direttamente in una delle due “Case speciali per l’alloggio temporaneo di stranieri” (sic): centri di detenzione per migranti illegalizzati equivalenti ai CIE italiani. Secondo la legge bulgara, infatti, tutti i cittadini di paesi terzi che si trovino sul territorio bulgaro e non siano in possesso di un documento che li autorizzi a rimanervi, sono considerati risiedere illegalmente su tale territorio anche qualora abbiano intenzione di presentare domanda di protezione internazionale, poiché lo status di richiedente asilo – e quindi il diritto a trovarsi in territorio bulgaro – non sono conferiti fin quando la domanda non viene registrata e il documento attestante lo status non viene rilasciato.  

A differenza dei centri d’accoglienza, gestiti dalla SAR, il centro di distribuzione di Elhovo è gestito dal Ministero dell’Interno, al pari dei due centri di detenzione: quello di Busmantsi, situato nei pressi dell’aeroporto di Sofia, e quello di Lyubimets, vicino al confine con Grecia e Turchia. Questi due centri hanno una capienza, rispettivamente, di 400 e 300 persone, ma in certi periodi sono pesantemente sovraffollati. A fine novembre 2015 i due centri operavano rispettivamente al 168% e al 142% delle loro capacità. Per comprendere le ragioni di tale sovraffollamento basti pensare che la polizia di frontiera bulgara, il Ministero dell’Interno e la SAR nel 2015 hanno emesso 11.902 ordini di trasferire “forzatamente uno straniero in una casa speciale per l’alloggio temporaneo di stranieri”, e altri 2.386 di questi ordini nei primi quattro mesi del 2016. Questi numeri sono il frutto non solo degli arresti ai confini con Serbia, Turchia e Grecia, ma anche dei raid compiuti dalla polizia bulgara contro i migranti senza documenti, che sono frequenti soprattutto nella capitale: l’11 agosto scorso 166 migranti sono stati arrestati a Sofia in un solo giorno, pochi più che il 19 luglio, quando a essere arrestati erano stati 162 donne, uomini e bambini.   

Qualora fosse malauguratamente finito in uno di questi due centri di detenzione, Reka avrebbe potuto passarvi pochi giorni oppure mesi, fino a un massimo di diciotto, limite imposto dalla legislazione europea. Qui avrebbe potuto incontrare anche molti bambini e ragazzi minorenni, presumibilmente accompagnati dalle loro famiglie. Fino al marzo del 2013 in Bulgaria era consentito detenere in queste strutture anche minori non accompagnati. Oggi questa pratica è proibita nel diritto bulgaro, ma i racconti di diversi migranti fanno dubitare dell’effettivo rispetto della normativa. A ciò si aggiunga che la Bulgaria è uno dei paesi UE con la più ristretta superficie usufruibile dai migranti detenuti: appena tre metri quadri per persona.  

E’ fondamentale sottolineare come, secondo il diritto bulgaro, l’unica ragione che legittimi la detenzione di un migrante è l’organizzazione della sua espulsione dal paese. Inoltre, come sottolineato in un report del “Center for Legal Aid-Voice in Bulgaria”, una delle poche ONG che offre assistenza legale gratuita ai migranti, “l’interpretazione giudiziale delle disposizioni delle corti europee in materia di detenzione pre-rimpatrio richiede che le autorità nazionali adottino misure effettive per organizzare il rimpatrio e che vi sia una prospettiva realistica di effettuare tale rimpatrio”. Dei quasi 25.000 ordini di espulsione emessi dal gennaio 2015 all’aprile 2016, “solo” 909 espulsioni sono state realmente effettuate. Ciò significa che per ogni migrante detenuto “legalmente” in Bulgaria, ce ne sono o ce ne sono stati altri ventisei detenuti senza che ve ne siano o ve ne siano state le basi giuridiche.  

Durante la sua permanenza in uno dei vari centri d’accoglienza o di detenzione, nessuno si sarebbe realmente preoccupato di includere Reka in una società di cui non avrebbe conosciuto né cultura, né lingua, né religione. Per i primi nove mesi, Reka non avrebbe potuto neppure lavorare 5. Lo avrebbero atteso mattine, pomeriggi e serate infiniti, lontano dalla città, lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici, lontano da condizioni di vita che permettano a un essere umano di non scordarsi di essere tale. 
    
Se Reka ce l’avesse fatta, avrebbe dovuto affrontare tutto questo. Se Reka ce l’avesse fatta, avrebbe potuto scoprire che il suo nome, in bulgaro, vuol dire fiume.  

* Il suffisso -stan nelle lingue iraniche vuol dire “terra”. Bulgaristan è quindi il modo in cui, insieme ad altri popoli, turchi, curdi, iraniani e afgani chiamano la “terra dei bulgari”.

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  1. Un gruppo di 120 volontari e attivisti sparsi in tutta Europa che, grazie a una hotline attiva ventiquattr’ore su ventiquattro, riesce e geolocalizzare i migranti in difficoltà nel Mediterraneo e ad allertare le guardie costiere.

  2. Strutture ufficialmente denominate “centri d’integrazione”, nonostante l’ultimo programma d’integrazione riservato a rifugiati e richiedenti asilo sia terminato nel 2013 e non sia stato mai più riattivato.
  3. Nel 2015 sono state presentate 20.787 richieste di protezione internazionale in Bulgaria e 7.845 nei primi sette mesi del 2016.

    Negli stessi periodi, rispettivamente 14.567 e 4.100 procedure sono state terminate, dato che prova come la Bulgaria sia a tutti gli effetti un paese di transito.

  4. E’ difficile comprendere su quali basi, che si suppongono giuridiche, i migranti vengano “distribuiti” nei vari centri. Il criterio della fortuna, a detta di molti migranti e di alcuni rappresentanti di ONG, sembra essere il più plausibile.
  5. La legge sul rilascio del permesso di lavoro ai richiedenti protezione internazionale è stata cambiata recentemente, a meno di un anno dall’ultima modifica, riportando di nuovo il periodo necessario a ottenere il permesso di lavoro da tre a nove mesi dopo la presentazione della domanda d’asilo.