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I trattenimenti illegittimi all’interno degli hotspot alla luce della sentenza della Corte EDU sul caso Khlaifia v. Italia: la politica della detenzione continua

La sentenza è di primaria importanza anche perché mette in discussione le prassi detentive attuali all’interno degli hotspot

La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per il trattenimento illegittimo di tre cittadini tunisini 1, confermando la sussistenza della violazione del Diritto alla libertà e alla sicurezza, art. 5 CEDU, e del Diritto ad un ricorso effettivo, art. 13 CEDU. Si tratta di una decisione di assoluta rilevanza: è la prima condanna per l’illegittima detenzione dei migranti all’interno dei centri di prima accoglienza italiani. La sentenza è di primaria importanza anche perché mette in discussione le prassi detentive attuali all’interno degli hotspot.

La Grande Camera ha parzialmente riformato la decisione della seconda sezione, escludendo la sussistenza delle violazioni dell’art. 3 CEDU e dell’art. 4 prot. 4 CEDU, che rispettivamente vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, e le espulsioni collettive. Per un’attenta analisi della sentenza della Grande Camera, anche in relazione ai profili attinenti le violazioni non confermate, si rimanda ad un successivo intervento.

In ogni caso, la pronuncia della Grande Camera riguarda rilevanti profili di illegittimità, tali da configurare una significativa violazione dei diritti dei migranti illegittimamente trattenuti. Può essere utile valutare le considerazioni della Grande Camera alla luce di quello che avviene attualmente nell’ambito del cd. approccio hotspot. Le considerazioni contenute nella sentenza della Corte EDU in oggetto riguardano evidentemente uno specifico tempo e una determinata situazione (il trattenimento, nel 2011, di tre cittadini tunisini all’interno del Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa e, successivamente, nel porto di Palermo), ma l’importanza delle violazioni registrate dalla Corte EDU può essere un’occasione per comprendere la rilevanza dei trattenimenti illegittimi negli hotspot.

La sentenza della Grande Camera

Le violazioni per le quali l’Italia è stata condannata riguardano, innanzi tutto, il Diritto alla libertà e alla sicurezza, art. 5 CEDU. L’articolo definisce i limiti sostanziali e procedurali entro i quali lo Stato può legittimamente limitare la libertà personale. Nel dettaglio, le violazioni registrate dalla Grande Camera riguardano i commi 1, 2 e 4 dell’art 5.

Il comma 1 descrive i casi tassativi nell’ambito dei quali la limitazione della libertà personale è legittima. Il comma 2 prevede che la persona privata della libertà ha il diritto di essere tempestivamente informata, in una lingua a comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico. Il comma 4 sancisce il diritto, in caso di privazione della libertà, di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida sulla legittimità della detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima.

Il caso in oggetto riguarda le circostanze e le condizioni del trattenimento di tre cittadini tunisini, arrivati in Italia nel 2011, trattenuti all’interno del Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa in condizioni da essi descritte come inumane e degradanti. In seguito ad un incendio che aveva reso inutilizzabile la struttura, i tre cittadini tunisini, insieme agli altri migranti presenti sull’isola, furono trasferiti a Palermo e collocati all’interno di tre imbarcazioni attraccate nel porto. I cittadini tunisini furono infine rimpatriati in ragione dell’accordo Italo-tunisino del 5 aprile 2011.
In relazione alle specifiche circostanze che hanno indotto la Grande Camera a confermare la violazione dell’art. 5 comma 1, rileva in particolare la lettera f) dell’articolo in oggetto. In particolare, la Corte EDU ha evidenziato l’assenza di base normativa che disciplini il trattenimento all’interno dei Centri di primo soccorso e accoglienza. Il relazione al comma 2 art. 5 CEDU, la Corte ha rilevato che non vi è riscontro sulle specifiche informazioni che i ricorrenti avrebbero dovuto ricevere in relazione ai presupposti e alla durata del trattenimento. Con riferimento al comma 4, la Corte ha sottolineato che la violazione dell’obbligo di informazione configura anche una violazione del diritto ad un ricorso effettivo, rendendo non necessario l’accertamento dell’esistenza di efficaci e tempestivi rimedi interni.
Grande Camera ha inoltre confermato la sussistenza della violazione dell’art. 13 CEDU in relazione all’art. 3, in relazione all’assenza di un organo al quale i ricorrenti avrebbero potuto rivolgersi in relazione alle condizioni del trattenimento.

Lo scenario attuale: le violazioni persistono

La rilevanza della decisione della Grande Camera è riscontrabile a più livelli. Le considerazioni formulate dalla Grande Camera sono di grande interesse in quanto si occupano di violazioni significative che hanno configurato una grave contrazione dei diritti per i tre cittadini tunisini, e per tutti gli altri migranti che, in quel particolare periodo e in quelle determinate circostanze, sono stati trattenuti illegittimamente. La sentenza della Grande Corte, se sovrapposta a quello che avviene attualmente nell’ambito dell’applicazione del cosiddetto approccio hotspot, contribuisce a delineare un quadro di rilevanti violazioni sostanziali e procedurali.
Com’è noto, i cd. hotspot sono stati introdotti, senza una specifica previsione normativa, in attuazione degli impegni assunti dal governo Italiano nella Road Map italiana, inviata alla Commissione Europea il 15 settembre 2015. Nel documento citato, privo di efficacia giuridica, viene descritto il funzionamento degli hospot, descritti come chiusi.

Hotspot di Taranto, 2016

Le violazioni riscontrate all’interno degli hotspot sono articolate, e potenzialmente in grado di compromettere l’esercizio di diritti fondamentali, a cominciare dal diritto di ricevere informazioni complete e comprensibili sulla situazione giuridica e al diritto di manifestare in qualsiasi momento la volontà di presentare domanda d’asilo. In questa sede si analizzeranno sommariamente le illegittimità che persistono in relazione alle misure coercitive di trattenimento attuate, all’interno degli hotspot, ai fini dell’identificazione.
Il regolamento UE n. 603/2013 disciplina i rilievi fotodattiloscopici nei confronti di stranieri di età non inferiore a 14 anni che abbiano presentato domanda di protezione internazionale, o che siano fermati dalle competenti autorità di controllo in relazione all’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera in provenienza da un paese terzo e che non siano stati respinti, o che rimangano fisicamente nel territorio e che non siano in stato di custodia, reclusione o trattenimento per tutto il periodo che va dal fermo all’allontanamento sulla base di una decisione di respingimento. In entrambi i casi i rilevamenti devono essere effettuati quanto prima e devono essere trasmessi al sistema centrale EURODAC entro 72 ore.

In presenza di tali obblighi identificativi, l’identificazione dei richiedenti asilo può essere effettuata presso i centri di primo soccorso e accoglienza (art. 8, comma 2 d. lgs. n. 142/2015) o presso i centri governativi di prima accoglienza (art. 9 d. lgs. n. 142/2015) o presso le questure (art. 11, comma 4 d. lgs. n. 142/2015), salve le ipotesi di trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione.

I rilievi fotodattiloscopici non possono avvenire con misure limitative della libertà personale fuori delle ipotesi previste dalla legge di trattenimento in un centro di identificazione e di espulsione disposto nei confronti di straniero già espulso (art. 14 d. lgs. n. 286/1998), o nei confronti di richiedenti asilo che abbiano presentato la domanda di asilo quando erano già destinatari di provvedimenti di espulsione o sottoposti a provvedimento di trattenimento (cioè che chiedano asilo dopo quei provvedimenti), o che siano ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica (avendo subito condanne per determinati reati) o se pericolosi socialmente o sospetti terroristi, o nel caso di rischio di fuga, se il richiedente asilo ha, precedentemente alla domanda di asilo, fornito sistematicamente false generalità al solo scopo di impedire l’esecuzione o l’adozione del provvedimento di espulsione (art. 6 d. lgs. n. 142/2015).

Al di fuori di delle ipotesi previste dalla legge, dunque, non è legittimo alcun trattenimento dei richiedenti asilo. Qualsiasi altra forma di privazione della libertà al di fuori delle ipotesi di accompagnamento presso gli uffici di polizia previsti per tutti coloro che rifiutino di farsi identificare (art. 11 d.l. 21.03.1978, n. 59, conv. in legge n. 191/1978) e al di fuori del fermo identificativo, ipotesi nelle quali l’accompagnamento e il fermo sono da effettuarsi sotto il controllo costante della magistratura penale, con la possibile partecipazione di un difensore e per un periodo non superiore alle 24 ore, è da considerarsi illegittima in violazione dell’art. 13 della Costituzione.

Il trattenimento illegittimo all’interno degli hotspot

Fin dai primi mesi di sperimentazione dell’approccio hotspot in Italia, le prassi introdotte hanno configurato situazioni di illegittimità nei confronti dei richiedenti asilo e dei migranti arrivati in Italia. Per quanto riguarda, nel dettaglio, i trattenimenti senza base legale, i racconti di molti migranti, l’attività di monitoraggio di numerose Ong nazionali ed internazionali, e diversi report dettagliati e circoscritti, hanno permesso di ricostruire un quadro di prassi informali, che spesso configurano una effettiva violazione dei diritti di richiedenti asilo e migranti.
In particolare il paragrafo n. 3.2.2 del rapporto Hotspot Italia di Amnesty International, intitolato Detenzione arbitraria, fornisce elementi significativi per valutare la portata attuale delle violazioni del Diritto alla libertà e alla sicurezza disciplinato dall’art. 5 CEDU.
Secondo Amnesty International, nonostante l’assenza di una base legale, l’uso della detenzione per agevolare l’identificazione e il rilevamento delle impronte digitali dei nuovi arrivati non è solo continuato ma è stato in parte intensificato, come conseguenza dell’implementazione dell’approccio hotspot.
Siamo davanti ad una prassi di trattenimento informale, non codificata da nessuna previsione normativa, attuata senza che sia prodotto un ordine formale di trattenimento, senza che un giudice convalidi tale ordine, senza che la persona in condizione di detenzione possa esercitare il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione.
Nel corso del tempo si sono registrate prassi altamente disomogenee nei vari hotspot attualmente attivi. In alcuni hotspot e in alcuni periodi i rilievi fotodattiloscopici avvengono, specialmente quando gli arrivi non sono numericamente significativi, in tempi tendenzialmente rapidi. In altri hotspot, e in specifici momenti di sovraffollamento, i trattenimenti si prolungano anche a lungo.
In ogni caso è opportuno ribadire che, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, e che rappresentano misure eccezionali, i rilievi fotodattiloscopici non possono avvenire con misure limitative della libertà personale. Nonostante la normativa sia chiara, Amnesty International riporta testimonianze dirette di migranti ai quali, in relazione al rifiuto di sottoporsi ai rilievi fotodattiloscopici, non è stato permesso di lasciare Lampedusa per diverse settimane. Situazioni di trattenimento protratto così a lungo sembrano avere carattere eccezionale, e sembrano riguardare in particolar modo la prima fase di implementazione dell’approccio hotspot in Italia. Nondimeno rappresentano episodi di assoluta gravità, e contribuiscono a delineare una situazione di prassi detentive applicate informalmente come strumento per vincere le resistenze dei migranti che provano a rifiutarsi di sottoporsi ai rilievi fotodattiloscopici.
In un contesto di questo tipo, all’interno del quale si delineano episodi di trattenimento di richiedenti asilo all’interno degli hotspot senza che tale previsione sia disciplinata dalla legge, la lettura delle considerazioni della Grande Camera sul caso Khlaifia v. Italia può rappresentare un ulteriore strumento per comprendere che il funzionamento degli hotspot, in assenza di apposita normativa, sia da considerarsi illegittimo e potenzialmente in grado di configurare gravi violazioni dei diritti dei richiedenti asilo e dei migranti.
Con specifico riferimento alla violazione dei commi 1, 2, 4 dell’art. 5 CEDU, la Corte EDU ha evidenziato l’assenza di base normativa che disciplini il trattenimento all’interno dei Centri di primo soccorso e accoglienza, ha rilevato che non è vi è riscontro sulle specifiche informazioni che i ricorrenti avrebbero dovuto ricevere in relazione ai presupposti e alla durata del trattenimento, e ha sottolineato che la violazione dell’obbligo di informazione configura anche una violazione del diritto ad un ricorso effettivo.
È possibile, alla luce dell’attuale disciplina legislativa italiana e delle prassi di funzionamento degli hotspot monitorate dagli enti di tutela e dalle Ong nazionali ed internazionali, sovrapporre le considerazioni della Corte con la situazione attuale nell’ambito degli hotspot. Anche nei centri nei quali viene applicato l’approccio hotspot, infatti, il trattenimento non è disciplinato da alcuna previsione normativa, non vengono fornite informazioni in relazione alla durata e al presupposto del trattenimento, e l’assenza di un provvedimento che disponga il trattenimento impedisce l’accesso ad un ricorso effettivo.
È necessario, in relazione a quando descritto, predisporre specifiche attività di monitoraggio, che consentano di valutare in che termini continuano a persistere, all’interno degli hotspot, le prassi illegittime censurate dalla Grande Camera. Sarà altresì necessario predisporre gli opportuni interventi giurisdizionali, ricorrendo in via urgente alla Corte, ogni qualvolta si configurino violazioni analoghe a quelle per le quali l’Italia è stata recentemente condannata, evitando che prassi gravemente lesive dei diritti dei migranti continuino ad essere perpetuate.

  1. Leggi la sentenza in inglese o in italiano

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.