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Aspettando al confine: ci vuoi anche le patatine?

The New York Times, 9 maggio 2019

Clienti al Whataburger a Hidalgo, Texas. Ilan Panich-Linsman per The New York Times

Aspettando al Whataburger

Scritto da Mitchell Ferman a Hidalgo, Texas.

Il Whataburger, vicino al ponte, è laddove uno aspetta.

Solitamente per un passaggio, a volte per mangiare, dopo aver appena varcato il confine dal Messico. Le persone aspettano fuori, appoggiandosi al muro del locale; aspettano dentro, intenti a sfogliare il cellulare. Il famoso locale della catena di fast-food vicino all’Hidalgo-Reynosa International Bridge (ponte stradale internazionale tra Messico e Stati Uniti) è diventato una informale stazione secondaria al confine: una “Grand Central” senza il «Grande».

Accanto, migliaia di macchine, autobus e persone ogni giorno attraversano la campata, di un quarto di miglio, sul Rio Grande che collega gli Stati Uniti con il Messico.

Juda Castellanos, statunitense ma nativo messicano, che vive nel Texas Meridionale ma lavora presso un produttore di ricambi auto, dall’altra parte del confine a Reynosa, Messico, stava seduto, una sera, questa settimana, ad uno dei tavoli del Whataburger aspettando che sua moglie venisse a prenderlo.

Non sapeva dove ella si trovasse al momento. Il suo telefono era morto ed aveva dovuto farsi prestare quello di uno sconosciuto per mandare un messaggio, e poi un altro.

Ma sua moglie, visto che il cellulare era spento, aveva già fatto strada. Si era fermata al parcheggio proprio in quel momento con la sua monovolume. La porta scorrevole del lato passeggeri si aprì.

Ah, c’è mio figlio,” disse Mr. Castellanos.

La cena della famiglia quella sera fu: insalata e panini al fast-food.

Di Whataburger c’è ne sono a bizzeffe in Texas, ma nella cittadina del Texas Meridionale, Hidalgo, la clientela è unica. Quasi tutti quelli che passano di là hanno un piede in due nazioni.

I genitori conservano i certificati di nascita dei propri figli sul posto accanto ad essi in sacchetti con chiusura a pressione. Uno uomo ha aspettato al parcheggio, nella sua Chevrolet Camaro, la sua ragazza, che vive a Reynosa. Una donna ha aspettato il suo ragazzo, conosciuto al Whataburger. Non molto tempo fa, qualcuno entrò portando una pentolaccia di Donald Trump, venduta all’altro lato del ponte.

Ho visto anche degli amici delle scuole superiori aspettare qui per un passaggio una volta – Non riesco nemmeno a ricordarmi l’ultima volta che li avevo visti prima d’allora” ha detto Mr. Castellanos, che è cresciuto a Monterrey, Messico, una grande città commerciale a circa 140 miglia da Hidalgo.

L’inequivocabile esterno bianco ed arancione del Whataburger fa di esso un punto di incontro naturale, il più facile e maggiormente riconoscibile punto di riferimento che si presenta in vista del ponte.

Mr. Castellanos diceva di sentirsi più al sicuro con sua moglie che poteva venire a lasciarlo e a prenderlo lì piuttosto che portare la sua macchina in Messico. “La situazione della sicurezza a Reynosa non è eccezionale,” diceva.

Prima che sfociasse la violenza a Reynosa, circa 10 anni fa, i giovani si riunivano al Whataburger prima di uscire per passare la serata al confine con il Messico e poi vi ritornavano per un hamburger in tarda nottata, alla fine della serata.

Alcuni usano i locali del fast-food come posto per accaparrarsi lavoretti temporanei o per incontri di affari. Mario Vargas, un ingegnere industriale di 37 anni, stava aspettando ad uno dei tavoli all’angolo, nella speranza che sua cognata venisse a prenderlo per fare dei lavori nel suo ranch. Aveva dei problemi con il suo datore di lavoro usuale, un impresario di Reynosa, e aveva bisogno di quel lavoro extra.
È rimasto lì ad aspettare per ore davanti al suo eccezionale menù, non consumato, accanto al suo cappello di paglia.

Dovrebbe chiamare alle 9” disse alzando le spalle.

Dozzine di autobus attraversano l’Hidalgo Bridge per il Texas ogni giorno e quando il traffico si ingorga al confine, le persone spesso abbandonano l’autobus su cui si trovano, afferrano le proprie cose, si incamminano verso la dogana ed aspettano che qualcuno venga a prenderli.

Una attesa di tre ore!” – disse Nancy Ramirez, una residente del Texas Meridionale reduce da un viaggio di tre ore sull’autobus dallo stato messicano del Nuevo León dopo un periodo di vacanza in Messico.

Non era mia intenzione andarci per stare seduta lì sopra!” – disse.

Così, la Signora Ramirez è scesa giù dall’autobus, ha chiamato sua figlia e si è incamminata verso il Texas. Poi si è fermata e si è seduta ad uno dei tavoli del Whataburger con i suoi bagagli e senza appetito.

Manny Fernandez ha contribuito alla realizzazione del servizio.
Mitchell fa parte del team di giornalisti del The New York Times che ci raccontano della situazione al confine. Ogni settimana, condividono una parte dei loro servizi sul confine e sulle persone che trascorrono il loro tempo fra le sue sponde.

Citazione della settimana

Alcune volte gli insegnanti posso vederti o giudicarti in maniera diversa, così non racconto a molti che faccio avanti e indietro. A volte mi perdo tantissime cose poiché non abito da quelle parti. E non vivo da quelle parti perché i miei genitori non possono vivere lì insieme a me. Non sono cittadini statunitensi.
– Jocelyn Guzman

La Sig.na Guzman, 18 anni, vive a Matamoros in Messico ma attraversa il confine per frequentare le superiori a Brownsville, Texas. È stata inclusa, insieme ad altre sei ragazze, in una collezione di saggi su cosa significa crescere e diventare maggiorenni al confine.

Scopri di più sulle loro storie qui.

Il subdolo modo di esprimersi quando si parla del confine

Un ragazzino e sua madre aspettano in fila, quella dei richiedenti asilo, alla stazione degli autobus di San Antonio ad aprile. Callaghan O'Hare per The New York Times
Un ragazzino e sua madre aspettano in fila, quella dei richiedenti asilo, alla stazione degli autobus di San Antonio ad aprile. Callaghan O’Hare per The New York Times

Scritto da Caitlin Dickerson, reporter sull’immigrazione nazionale.

In qualsiasi cosa, le parole, le questioni linguistiche ad esse legate e le emozioni che attraverso di esse trasmettiamo, hanno la loro potenza. Lo dimostra il fatto che, senza volere e dovere andare lontano, le due opposte fazioni del dibattito nazionale sull’immigrazione sembrano estrarre fuori da dizionari completamente opposti e separati le parole utilizzate per descrivere la situazione al confine. Quello che per qualcuno è un “rifugiato” per qualcun altro è un “immigrato clandestino.” Spesso è una valutazione basata su una sensazione di pancia in cui le visioni politiche danno forma al linguaggio e viceversa.

Alcuni americani guardano al confine e vedono masse accalcate di madri e padri disperati che fuggono con i loro bambini dalla violenza e dall’indigenza. Essi pensano che ai richiedenti asilo non si debba solo offrire protezione ma anche un’occasione da parte del loro più fortunato vicino settentrionale.

Altri guardano ai nuovi arrivi come a degli opportunisti e spericolati che hanno scelto di mettere a rischio bambini vulnerabili, attraverso un viaggio pericoloso e a volte anche mortale, per sfruttare il sistema legale americano ed avere una immeritata spinta nella vita.

Quasi nessuno chiama i nuovi arrivati “forestieri” sebbene questo sia il termine più accurato e relativamente spassionato da usare.

Da parte sua, il governo federale assume un approccio clinico nei confronti della discussione. Secondo alcuni, questo modo di fare disumanizza i migranti, il che può inclinare il dibattito. Per esempio, nel gergo del governo si fa riferimento ai nati all’estero come “stranieri.” I giovani che emigrano da soli vengono definiti “bambini stranieri non accompagnati” o “minori non accompagnati.

Chiunque sia intercettato e fermato dalla polizia di frontiera mentre attraversa il Rio Grande per il Texas è considerato “wet” (in inglese, bagnato) che alle orecchie di molti suona come un termine razzista per i messicani. Persino i richiedenti asilo che cercano le guardie di frontiera per consegnarsi e chiedere protezione sono conteggiati nei dati ufficiali come “apprehended” (in inglese, arrestati) facendo intendere, erroneamente, che essi siano stati beccati e catturati mentre cercavano di sgattaiolare verso gli Stati Uniti.

I lettori fanno molta attenzione alle parole che noi usiamo come giornalisti per descrivere certe questioni, ed a buon motivo. Pochi termini eletti possono spostare tutto il tono della storia. Anni fa, la lamentela che sentivo di più era riferita al fatto se chiamare gli immigrati che vivevano negli Stati Uniti privi di status legale “clandestini” oppure “senza permesso” (io credo che siano entrambe scorrette e cerco di evitarle).

Ora, però, la questione incalza. Si può chiamare “crisi” una situazione che vede un enorme numero di persone travolgere le stazioni della Polizia di frontiera, anche se parte di questo chaos è stato autoimposto dall’amministrazione? Possono le regole pensate per proteggere il benessere dei bambini essere chiamate “scappatoie” perché facilitano i bambini ad entrare e rimanere negli Stati Uniti?

Di recente, un lettore ci ha fatto notare che nella newsletter era stata utilizzata la parola “dislocazione” parlando di un incarico temporaneo che aveva spedito due nostri colleghi a vivere al confine meridionale per diversi mesi. Nelle redazioni, invece, direttori e giornalisti usano spesso quella parola per descrivere l’assegnazione di articoli di vario genere (“Caitlin, sarai dislocata per dare un aiuto nel seguire il Royal Wedding,”); l’espressione in sé non compare solitamente in stampa tranne nel caso di servizi che riguardano una risposta militare ad un violento conflitto.

In questo caso, “dislocazione” può aver evocato l’idea di chaos e pericolo al confine che non equivale alla realtà, per questo lo abbiamo rottamato. Parimenti, il modo preferito dal Presidente Trump per parlare delle procedure di detenzione e liberazione dei migranti arrestati al confine – “cattura e rilascio” li chiama lui – lascia, quasi, intendere che sia stia parlando di pesca, segnalano molte persone, e quei migranti disperati, comunque li chiamiate, non sono delle prede; per questo motivo, preferiamo, adesso, evitare di usare questa espressione a meno che non si faccia riferimento al modo in cui l’amministrazione stessa ne parla.

La sfida qui non risiede nel fatto che poche delle parole utilizzate nel dibattito sull’immigrazione siano caricate di significato politico, ma che la maggior parte di esse lo siano. Alla luce di ciò, un esercizio utile sarebbe quello di fermarsi per un momento, da qualsiasi parte del dibattito si stia, e scambiare i termini che di solito usiamo con quelli utilizzati da quelle persone che, invece, la vedono in maniera diversa da noi, non per rendere la nostra visione più simile alla loro di visione, ma per capire meglio lo spazio che intercorre fra le due.

Leggi i precedenti numeri di Crossing the Border qui.