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Caso Emmanuel: il volto della provincia italiana sfigurato dall’intolleranza

Patteggia una condanna di quattro anni ai domiciliari l’omicida del giovane rifugiato nigeriano ucciso a Fermo lo scorso 5 luglio

Photo credit: Ennio Brilli - La manifestazione di protesta in ricordo di Emmanuel Chidi Namdi, Fermo, Marche (Italia), 8 luglio 2016

Ci sono voluti solo cinque mesi per svelare definitivamente il volto sfigurato dall’odio e dall’intolleranza della piccola provincia italiana, e mostrare, a chi ha occhi per vedere, di che cosa è capace quella miscela esplosiva fatta di ipocrisia piccolo borghese, arroganza strapaesana e una buona dose di meschina indifferenza, dove prosperano razzismo e xenofobia.

Photo credit: Ennio Brilli
Photo credit: Ennio Brilli

Tanto è il tempo trascorso tra l’omicidio del rifugiato nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, morto a Fermo lo scorso 6 luglio a seguito del trauma riportato al culmine di una furibonda lite con il fermano Amedeo Mancini, e l’atto emesso il 12 dicembre dalla Procura del piccolo centro marchigiano con cui è stata accolta l’istanza di patteggiamento per omicidio preterintenzionale avanzata dai legali di quest’ultimo, consentendogli di cavarsela con una risibile condanna di quattro anni, da scontare ai domiciliari e con il permesso di assentarsi quattro ore al giorno per recarsi al lavoro.

I fatti consumatisi quel tragico 5 luglio sono noti da tempo: Emmanuel passeggia per le vie del centro con sua moglie Chimiary in un assolato pomeriggio di mezza estate, Mancini, noto simpatizzante dell’estrema destra locale e già in passato più di una volta protagonista di provocazioni all’indirizzo di migranti residenti in città, li vede e senza alcun motivo inizia a rivolgersi verso Chimiary con insulti di chiara matrice razzista, Emmanuel prima lascia correre, poi ci ripensa e torna indietro, alcuni dicono brandendo contro il Mancini il paletto di un cartello stradale, ne nasce una colluttazione tra i due, un pugno sferrato dal fermano manda a terra Emmanuel, che batte violentemente la testa e morirà il giorno seguente, dopo qualche ora di agonia.

Nonostante il riconoscimento dell’aggravante razzista, a Mancini il giudice ha concesso l’attenuante della provocazione subita, che ha inciso fortemente sull’entità lieve della pena comminatagli (vale la pena ricordare che senza tale attenuante, la condanna per omicidio preterintenzionale, reato di cui era accusato Mancini, va da un minimo di 10 a un massimo di 18 anni).

Photo credit: Ennio Brilli
Photo credit: Ennio Brilli

Poco importa che sull’oggetto della presunta provocazione, il paletto con cui Emmanuel avrebbe tentato di aggredire il fermano, il Ris non abbia riscontrato tracce del Dna del nigeriano. Dopo il patteggiamento non sarà celebrato nessun processo e ciò significa che neppure la contraddittoria dinamica dell’episodio, così come l’ambiguo ruolo svolto da alcuni testimoni oculari, potranno essere discussi e approfonditi.

Eppure, per quanto gravissima, presa così la vicenda potrebbe persino somigliare a uno dei tanti casi di malagiustizia che spesso si verificano in Italia, ovviamente sempre a danno dei soggetti più deboli. Ma nel caso di Emmanuel, a fare la differenza e a segnare un punto di non ritorno è quanto accaduto nel corso di questi cinque mesi e ciò che resterà di tutta questa storia, ovvero, come fanno notare le associazioni del Coordinamento 5 luglio, “tante pericolose chiacchiere e tanti infondati tentativi di giustificazione”. Insomma, quanto di peggio possibile per una città che ancora oggi rifiuta ostinatamente di guardarsi allo specchio per evitare di non scoprirsi più immune dal veleno della xenofobia.

Questo, d’altra parte, è stato l’obiettivo datosi fin dall’inizio dall’ampio e variegato fronte innocentista che in questi mesi, pur di tenere vivo il clima assolutorio a favore di Mancini, non di rado dipinto come una povera vittima, non ha esitato a solleticare i peggiori istinti della massa grigia e informe, attingendo al più becero armamentario razzista sui presunti privilegi dei migranti, gli affari delle associazioni che si occupano di accoglienza, l’integrazione impossibile e via dicendo.

Photo credit: Ennio Brilli
Photo credit: Ennio Brilli

Un’operazione perfettamente riuscita grazie anche al significativo apporto di varie componenti, a partire dall’appassionato e quasi unanime sostegno dei media locali e di numerose testate nazionali (comprese alcune firme apparentemente insospettabili), che inizialmente si sono date da fare per minimizzare la portata dell’accaduto, sposando e divulgando la tesi della “banale rissa finita male”, per poi proseguire con un’opera di delegittimazione della figura di Emmanuel, fino a ipotizzare, proprio nei giorni precedenti l’accoglimento della richiesta di patteggiamento di Mancini, una sua grottesca affiliazione alla mafia nigeriana, la famigerata Black Axe, sulla base – si stenta a crederlo ma è così – del colore degli abiti indossati da alcuni partecipanti ai suoi funerali.

Non da meno è stata l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Paolo Calcinaro. Dopo non essere riuscita a difendere due titolari di protezione internazionale residenti sul proprio territorio, nonostante il clima ostile che da tempo aleggia in città intorno ai migranti, sindaco e giunta hanno subito assunto toni pilateschi e badato esclusivamente a barcamenarsi tra la necessità di salvaguardare il proprio tornaconto elettorale, ovvero non perdere il determinante consenso riscosso a destra alle ultime elezioni, in particolare, quello di alcune frange della tifoseria della Fermana da cui proviene lo stesso Mancini, e il “dovere istituzionale” di difendere l’immagine della città, negando oltre ogni evidenza la realtà dei fatti, nella fattispecie quella di trovarsi di fronte a un evidente caso di omicidio a sfondo razziale. Esercizio, quest’ultimo, sciocco e inutile se non si comprende che il problema non è nel luogo dove si verificano gli episodi di razzismo e violenza, ma il razzismo e la violenza stessi che hanno ormai pervaso il Paese da nord a sud, da Rosarno a Gorino passando per Fermo.

Molto altro ancora si potrebbe aggiungere sull’accanimento scatenatosi contro la memoria di Emmanuel e la persona di Chimiary, che nel frattempo ha lasciato la città dove i due giovano coniugi avevano cercato riparo dagli estremisti di Boko Haram, perdendo anche un figlio durante il lungo e durissimo viaggio della speranza verso l’Italia.

Emmanuel e Chimiary, il giorno del loro matrimonio (foto Ansa)
Emmanuel e Chimiary, il giorno del loro matrimonio (foto Ansa)

Si potrebbe raccontare, per esempio, di un’interrogazione presentata dal gruppo consiliare comunale del Movimento 5 Stelle con la quale si è chiesto all’Amministrazione comunale se non fosse il caso “di aprire un contenzioso per richiesta danni all’immagine della città verso chi dovesse essere ritenuto responsabile della strumentalizzazione mediatica del grave fatto” creando “un danno d’immagine difficilmente sanabile dal punto di vista turistico e culturale”.

Tra l’altro, sarebbe interessante sapere se tale interrogazione sia stata ispirata dal consigliere pentastellato Mirko Temperini, ritratto in una foto dello scorso aprile insieme all’omicida di Emmanuel.

Ma si potrebbe ricordare la pessima gaffe consumatasi in Regione, dove a novembre la giunta ha prima deliberato il conferimento del Picchio d’Oro, massima onorificenza marchigiana, a Chimiary, salvo poi ritrattare il tutto, in seguito ad alcune solerti obiezioni, giustificandosi con il più puerile degli espedienti istituzionali: l’errore amministrativo.

Non solo la violenza subita, ma anche tutte le umiliazioni subite da Emmanuel e Chimiary in questo lasso di tempo così breve (indicatore più che concreto di come sentimenti di intolleranza si siano ormai da tempo radicati anche nelle amene comunità marchigiane) suonano come uno schiaffo anche verso chi, nel nostro territorio, continua ad adoperarsi alla quotidiana costruzione di percorsi di accoglienza e inclusione, inseguendo il sogno di realizzare per l’oggi e per il domani una società più giusta, in cui chiunque scappi da guerre, povertà e persecuzioni possa trovare riparo ed essere il benvenuto, senza l’obbligo di sentirsi tollerato con malcelato fastidio.

Ma non si illudano coloro che dopo l’amara conclusione di questa triste storia non hanno perso tempo a gridare vittoria: il saldo finale è positivo solo per qualche avvocato in cerca della ribalta nazionale, per il resto, l’unico risultato vero raggiunto è stato quello di rendere Fermo e le Marche luoghi più grigi e tristi, dove senza una rapida inversione di tendenza il futuro pare destinato ad affogare in una palude di ignoranza ed egoismo.

Simone Massacesi

Vivo ad Ancona e mi sono laureato in Storia contemporanea all’Università di Bologna. Dal 2010 sono giornalista pubblicista.