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Chi ha paura della fine di Schengen?

Frontiere del controllo - Rubrica a cura di Giuseppe Campesi, Università degli Studi di Bari

Quando la Svezia ha deciso di riattivare i controlli al valico di frontiera del ponte Öresund, che collega Copenaghen e Malmö, l’opinione pubblica europea è stata messa di fronte all’evidenza di una imminente fine di Schengen. Era forse quella la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso, mettendo una pietra tombale sul sogno dell’integrazione europea? Negli ultimi mesi, com’è noto, diversi sono stati i paesi che hanno riattivato i controlli alle frontiere interne, mettendo esplicitamente in discussione forse l’aspetto più significativo della cittadinanza europea: la libertà di circolazione. La giustificazione di tali provvedimenti ha in genere fatto leva sull’argomento che l’afflusso massiccio ed incontrollato di profughi stesse mettendo in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza interna dei paesi interessati. In alcuni casi si sono anche fatte allusioni al pericolo di infiltrazioni terroristiche (Germana) o di tenuta per l’ordinata vita civile nel paese (Svezia), ma in genere il ragionamento dei ministeri degli interni interessati si è sempre concentrato sul fatto che l’inadeguatezza dei controlli effettuati alle frontiere esterne stesse mettendo in pericolo l’esistenza dello spazio di libera circolazione, che può esistere solo se c’è fiducia reciproca tra i suoi membri.

Nonostante l’acuirsi degli ultimi mesi, la crisi di Schengen affonda tuttavia le sue radici più indietro nel tempo e le prime avvisaglie si erano già manifestate nel 2011, all’indomani delle c.d. “primavere arabe”. In quell’occasione, le frizioni tra Stati membri portarono a una riflessione sulla possibilità di ripristinare più facilmente i controlli alle frontiere interne per sopperire alle “mancanze” dei paesi meridionali nel controllo della frontiera esterna. La risposta a quella crisi fu una revisione del c.d. Codice delle frontiere Schengen, che tramite un rafforzamento del ruolo di mediazione e controllo della Commissione cercava di disciplinare meglio la questione, limitando il rischio di azioni unilaterali incontrollate.

La sequenza di provvedimenti di riattivazione dei controlli alle frontiere interne cui abbiamo assistito negli ultimi mesi è stata effettuata all’ombra delle regole tracciate nel 2013. In particolare, gli Stati hanno dapprima proceduto ad un’azione d’urgenza utilizzando lo strumento previsto dall’art. 25 del Codice delle frontiere Schengen, per poi fare ricorso alla procedura ordinaria prevista dagli artt. 23 e 24, che consente di riattivare i controlli per un periodo massimo di sei mesi. Esaurito tale periodo, si discute adesso di utilizzare l’art. 26, che consentirebbe di mantenere attivi i controlli alle frontiere interne fino a un massimo di due anni. Ciò richiede una proposta della Commissione, avanzata sulla base di un rapporto che certifichi l’inadeguatezza “strutturale” dei controlli effettuati in una o più sezioni delle frontiere esterne. Uno scenario di questo tipo, che era stato già ventilato in un documento del Consiglio pubblicato ad inizio dicembre 2015, è stato esplicitamente discusso in occasione dell’ultimo Consiglio dei Ministri degli Affari Interni del 26 gennaio 2016, dove la Commissione ha presentato la bozza del suo rapporto di valutazione sulla gestione della frontiera comune da parte della Grecia.

Tuttavia, a dispetto dell’apparente legalità procedurale che caratterizza le mosse dei paesi membri che hanno riattivato i controlli alle frontiere interne, c’è da chiedersi se le ragioni sostanziali da essi addotte siano tali da legittimare i passi intrapresi. Soprattutto alla luce del considerando n. 5 del regolamento di riforma del Codice delle frontiere Schengen, il quale afferma chiaramente che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovreb­bero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna”. Come accennato, infatti, è precisamente questa la giustificazione addotta dai paesi che hanno ripristinato i controlli alle loro frontiere interne. Una giustificazione che la Commissione non ha avuto il coraggio di delegittimare esplicitamente nel suo ultimo rapporto sullo stato di Schengen.

Ma proviamo a considerare le cose da un altro punto di vista, lasciando da parte gli aspetti strettamente giuridici e guardando invece al significato politico delle azioni intraprese dai paesi che hanno riattivato i controlli alle loro frontiere interne.

Analizzando i provvedimenti adottati negli ultimi mesi, ci si rende conto che essi si sono concentrati su alcuni specifici valichi di frontiera e, salvo il caso della Francia, non hanno in nessun caso riguardato le frontiere nazionali nella loro interezza. I documenti redatti dai ministeri degli interni che accompagnavano l’annuncio della riattivazione dei controlli, si affannavano infatti a sottolineare la natura circoscritta dell’azione intrapresa, evidenziando come sarebbe stato fatto ogni sforzo per non intralciare eccessivamente il movimento delle merci e dei cittadini europei. Non è un caso se nel documento in cui la Commissione ha espresso un parere sui provvedimenti adottati da Austria e Germania, si sottolinea con compiacimento come i controlli siano stati effettuati in maniera “mirata” e abbiano comportato limitati disagi per quelli che vengono definiti “viaggiatori in buona fede” (bona fide travellers), non ostacolando la loro libertà di circolazione nello spazio Schengen.

Era evidente che l’obiettivo della riattivazione dei controlli fossero solo alcune delle persone in movimento attraverso le frontiere. Non a caso c’è stata una precisa geografia politica dei provvedimenti adottati dai paesi membri, che ha sostanzialmente seguito la traiettoria di chi cerca di raggiungere il nord Europa risalendo la rotta dei Balcani occidentali. A ben guardare, i paesi interessati avrebbero potuto ottenere il medesimo obiettivo rafforzando i controlli saltuari ai sensi dell’art. 21 del Codice delle frontiere Schengen, che consente di effettuare verifiche o creare posti di blocco ad intermittenza in una zona di frontiera che può estendersi fino a 20 Km all’interno del territorio nazionale. Controlli di questo tipo, che in gergo tecnico sono definiti “controlli di retro-valico”, sono comuni lungo le principali vie di comunicazione, o a bordo dei treni che collegano tratte internazionali. Misure simili sono state del resto adottate da molti altri paesi (tra cui ad esempio l’Olanda, il Belgio o la stessa Italia) che nel medesimo periodo non hanno ritenuto necessario ricorrere a misure eccezionali, optando per un’azione che era in grado di raggiungere risultati analoghi senza una eccessiva esposizione mediatica.

Se messi in prospettiva, i provvedimenti adottati da Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia, appaiono dunque in una luce del tutto differente. Nella sostanza essi non differiscono molto dalle misure di controllo saltuario che si possono adottare in via ordinaria, il loro scopo non è chiudere ermeticamente le frontiere nazionali, bensì attivare dei punti di filtraggio per distinguere tra la mobilità in “buona fede” e quella in “mala fede”. Al contempo però, tale attività di filtraggio deve essere fatta mettendo in scena una nuova forma di quello che Paolo Cuttitta ha definito lo “spettacolo del confine”. L’allarmismo sulla tenuta di Schengen ci pare in sostanza costruito ad arte. Non solo è una strategia che serve per scaricare sui paesi meridionali la responsabilità per l’adozione di provvedimenti giuridicamente discutibili, ma ha un preciso significato politico. Esso serve a creare il clima necessario a giustificare una risposta alla crisi migratoria essenzialmente centrata su misure di sicurezza che puntano al rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, senza mettere minimamente in discussione l’essenza del sistema Dublino, né la necessità di aprire un corridoio umanitario per agevolare il movimento di quanti scappano da persecuzioni e guerre. Ma soprattutto, il clima allarmistico serve a preparare il terreno per l’approvazione di una controversa riforma che potrebbe portare alla nascita di una nuova e rafforzata polizia della frontiera europea in grado di sostituirsi alle polizie nazionali nel controllo dello spazio Schengen.