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Con permesso, io soggiorno. Testimonianze di immigrati per la comprensione dei flussi migratori e della diversità

Tesi di laurea di Linda Zinesi

Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)

Università di Padova

Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione
Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata

Corso di laurea in Scienze Psicologiche della Personalità e delle Relazioni Interpersonali

Con permesso, io soggiorno

Testimonianze di immigrati per la comprensione dei flussi migratori e della diversità

Relatrice:
Prof.ssa Maria Armezzani

Anno Accademico 2016-2017

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1. Introduzione

Vorrei cominciare dalla base, vorrei partire dalla Terra.
In natura i fiumi nascono spontaneamente. Si originano dai ghiacciai, da altri fiumi, dalle piogge, dalle acque sotteranee e attraversano paesaggi prima disabitati portando una promessa di vita: acqua.
I flussi-fiumi, per propria natura, scorrono. L’uomo costruisce dighe per installare mezzi artificiali di ricavo di energia naturale dove la materia prima stessa è, in sé, portatrice di energia. L’uomo, però, ha bisogno di incanalare questa energia, di contenerla e controllarla per poterla utilizzare a suo piacimento. Di fatto, nei pressi di una diga, qualcosa è lasciato scorrere, mentre qualcos’altro è artificialmente bloccato e ristagna. Questo spiega come spesso, per controllare i processi, al fine di direzionarli verso scopi da egli prestabiliti, l’uomo li rallenti o addirittura impedisca la loro naturale manifestazione.
L’acqua ‘buona’ –da bere, da lavarsi, da fare da mangiare- è quella che scorre, perché, scorrendo, l’acqua si rigenera e si depura. Poi, il percorso che un flusso prenderà, sarà l’acqua stessa a determinarlo, a solcarlo nella terra. Tra le montagne-barriere e le rocce-ostacoli, a poco a poco sgorgando, il flusso disegnerà un nuovo paesaggio: più fertile e meno arido di prima.
Che l’uomo preistorico fosse nomade e che, gradualmente, si sia evoluto verso forme sedentarie di vita, fino all’odierna, quasi ovunque diffusa, completa sedentarietà, non è soltanto una grande bugia, ma dimostra anche l’effetto di miopismo provocato da una forte paura del cambiamento, spesso associata ad uno stile di vita –soggettivo e non epocale- sedentario. È inevitabile che l’attrazione di morbidi cuscini del divano e di uno schermo a colori in continuo movimento possa facilmente portare ad assimilare le proprie, arbitrarie abitudini con una tendenza umana ben più profonda, remota e di tutt’altra specie; e quindi a confondere un rispecchiamento virtuale tra se stessi e il mondo mediatico con un continuo processo di rispecchiamento tra sé e un mondo reale tutto da scoprire, sinonimo di un processo di conoscenza interiore ed esteriore.
Tutt’altro che essere lungi dalle epoche preistoriche di nomadismo, oggi viviamo una fase di aumentata mobilità, al punto che essa è divenuta fattore vincente sul mercato del lavoro (nel mondo ricco prima ancora che altrove), e persino invidiato status symbol (Allievi, 2017). Ciò che è cambiato e continua a cambiare da allora non è la dimensione o la portata delle migrazioni, bensì la loro direzionalità e le loro cause profonde. Fino a cinquant’anni fa, ad esempio, si assisteva a massicci spostamenti di manodopera dall’Europa verso l’America settentrionale e latina; “oggi, invece vengono verso l’Europa, ma vanno un po’ in tutte le direzioni, in maniera segmentata. Entrano alcuni tipi di persone e categorie di lavoratori e ne escono altre, secondo lo sviluppo di nuove domande e di nuovi bisogni” (Allievi, 2017). Quelli che oggi stiamo guardando con occhi spaventati, sono processi di pluralizzazione ineludibili ed irreversibili, che spesso suscitano timore e plateali allarmismi, perché la pluralità cambia la società, trasformando le nostre identità individuali e collettive e quelle degli immigrati che entrano a far parte del nostro Paese; per giunta, le sempre più ‘smobilitate’ crisi identitarie si manifestano spesso sotto forma di resistenze reazionarie a questo impellente processo di trasformazione (Allievi & Dalla Zuanna, 2016). Come scrivono Allievi e Dalla Zuanna (2016), si tratta di “un processo dinamico e alquanto complesso, che si lascia meglio descrivere dall’immagine dinamica e in continua evoluzione del caleidoscopio delle culture: i cui pezzi, sia quelli piccoli, sia quelli più grandi (fuor di metafora, sia le nuove forme culturali, sia quelle vecchie), sono in continuo movimento, e anche in continua trasformazione interna. E il sovrapporsi dei vari pezzi, quelli nuovi e quelli preesistenti, produce nuove forme e nuove sfumature di colore, ovvero produce fenomeni di meticciato e di sincretismo culturale. Ha effetti, insomma, anche interni, di peso tutt’altro che trascurabile” (p. 105).
Le migrazioni hanno quindi un risvolto più evidente, per così dire superficiale, manifesto, che riguarda gli sbarchi, i richiedenti asilo, i dibattiti politici internazionali, i lunghi e faticosi iter burocratici per la delibera di un documento di soggiorno o la sentenza di respingimento e, non da ultimo, i luoghi di accoglienza dei profughi –dai Cara (Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo), ex CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) e CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), alle cooperative sociali e associazioni umanitarie impegnate nella prima e seconda accoglienza, fino alle residenze private di coloro che hanno ottenuto un permesso e, magari poi, anche una qualche forma di protezione internazionale- spesso relegati alle periferie delle città, là dove è più facile che si radichino e radicalizzino il pregiudizio e l’ostilità, affermati e allo stesso tempo allontanati, insieme alle loro vittime, al di fuori delle mura che delimitano il centro, illusorio ed idealizzante, della propria città così come della propria coscienza.
Un altro risvolto delle migrazioni, meno scontato, più complesso e spesso latente, seppure costantemente in evoluzione, è quello della reciprocità –di relazioni, di scambi, di culture, di influenze- che inevitabilmente caratterizza le interazioni tra la popolazione autoctona e gli immigrati. I due aspetti sono, per ovvie ragioni, interdipendenti; se, però, l’Europa vista dall’alto appare come “un brulichio di esistenze che cercano di passare attraverso le maglie fitte di questo sistema immunitario in perenne stato di allerta, pronto a sconfiggere o a isolare il nuovo arrivato, o comunque lo straniero, il ‘diverso’ o presunto tale” (Associazione Diritti e Frontiere [ADIF], n.d.), ciò è da imputare, a detta di Allievi e Della Zuanna (2016), ad una pubblica amministrazione rigida, inefficiente e poco propensa a lottare contro le diseguaglianze, ad una società che non valorizza il merito e l’impegno individuale e ad un’errata narrazione pubblica dei grandiosi fenomeni della globalizzazione. L’Unione Europea, protagonista indiscussa di questo nuovo e complesso scenario che le moderne migrazioni ogni giorno rappresentano sotto i riflettori del pubblico globale, si trova ad essere –volente o nolente- motore dei processi migratori e transculturali: deterrente della grande responsabilità, prima ancora che del grande potere, di catabolizzare o, al contrario, frenare il fluire inatteso di correnti umane in alcun modo estinguibili. Ad essa il compito di dare struttura ai flussi, di contenerli, gestirli e direzionarli –così come gli argini di un fiume ne sostengono e guidano il percorso, evitando che esso esondi. La presente ricerca guarda però anche a noi, cittadini dell’Unione Europea, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza verso la necessità del nostro fondamentale impegno, prima di tutto umano ancorchè civile e sociale, a ripensare i processi migratori in un’ottica di risignificazione delle culture, in cui prendere finalmente atto che, dentro il fiume, non ci stanno solo loro, i ‘diversi’ o ‘stranieri’, ma ci siamo –e ci siamo sempre stati- anche noi, con le nostre idee, le nostre rappresentazioni della realtà, i nostri conflitti, le nostre resistenze, nonché –ed è bene non scordarselo- la nostra innata, preziosa curiosità verso ciò che ancora non conosciamo.
La prospettiva dell’ADIF (Associazione Diritti e Frontiere, n.d.), da anni impegnata nel garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti, vede un futuro che, a dispetto della xenofobia delle destre populiste e nazionaliste e degli economicismi di comodo delle politiche più moderate, sarà sempre più permeato da uno scambio, un mescolamento, una nuova forma di appartenenza basata sull’evidenza che le frontiere sono destinate ad essere messe strutturalmente in discussione. In quest’ottica, le migrazioni vanno comprese, accettate e ri-concettualizzate positivamente, per una nostra evoluzione sia individuale, sia storica. Ciò che i flussi migratori stanno riflettendo è un momento storico peculiare in cui la rappresentazione attraverso di essi di numerosi passaggi dovrebbe richiamarci ad ad-operarli (nel senso letterale della parola di ‘mettere in opera’, ‘curarsi di qualcosa per’) quali importanti occasioni di crescita. Passaggi non solo fisici, bensì vere e proprie manifestazioni di mobilità che vanno ben oltre il trasferimento da una nazione ad un’altra. L’arrivo di immigrati porta a sua volta altra mobilità, sociale e culturale, talvolta anche fisica, nei Paesi europei. Il rifugiato non è solo chi scappa da una guerra, persecuzioni, calamità naturali o, in generale, condizioni di vita avverse; egli rappresenta anche un testimone, un portatore del destino, della coscienza e del desiderio di riscatto di un intero Paese e, testimoniando, facendo conoscere la propria situazione e quella del proprio Paese, “lo serve, aiutando noi nel migliorare la nostra consapevolezza, oltre che le nostre conoscenze, che lui ha, come frutto amaro di esperienza, e che noi non abbiamo” (Allievi et al., 2016, p. 95).
Per questo le transizioni, i passaggi, gli scambi dovrebbero essere agevolati e non ostacolati. Già nel 2015, il consulente delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti François Crépeau affermava: “Invece di reprimere l’immigrazione irregolare, l’Europa dovrebbe organizzarla” (“Cinque Cose che l’Europa Deve Fare per Risolvere la Crisi dei Migranti”, 2015), incoraggiando alla creazione di canali umanitari di transito legale per i profughi. Ad oggi, tuttavia, ancora poco o nulla è stato concretizzato in questo verso, ma anzi “l’enfasi sui problemi, sui conflitti, sulle crisi e l’emergere di una visione globalmente pessimista e negativa delle trasformazioni indotte dalle migrazioni, rischia di mettere in ombra o di non farci proprio vedere i sempre più evidenti effetti d’incontro, di trasformazione, di arricchimento reciproco” (Allievi et al., 2016, p. 148). Eppure, dalle prime consistenti ondate di profughi agli inizi del XXI secolo ad oggi, anche solo guardando all’Italia, numerosi progressi sono stati compiuti da parte dei sistemi di accoglienza e di integrazione. Lo Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), nel suo rapporto sull’operato del 2016, parla chiaro, menzionando incisivi miglioramenti in termini di capacità di accoglienza ed efficienza dei servizi offerti dall’intera rete sociale pubblica, comprendente mille comuni, novantanove province e diciannove regioni, con una presenza di circa 35.000 beneficiari, “a testimonianza delle potenzialità propulsive e di aggregazione della Rete SPRAR” (Pantalone, 2016, p. 5). Sono proprio queste reti innovative, createsi ad hoc in risposta a particolari situazioni emergenziali, che, osservando e mettendo mano ai processi cristallizzati delle istituzioni governative, riescono spesso, ma non sempre, a sciogliere alcuni nodi di una matassa veramente troppo ingarbugliata, fatta di sovrastrutture, prassi, sistemi valoriali ingabbiati ed interessi asciutti, recuperando, seppure a fatica, quel filo rosso di cui spesso perdiamo il capo e intessendone progetti che, dal nord al sud dell’Italia, dal continente nero all’Europa a volte unita e a volte no, dalle Americhe alla lontana Asia, collegano persone, bagagli ed opportunità costruendo, a piccoli, piccolissimi passi, una nuova, inedita forma di coscienza interculturale, molto più ricca del singolo e molto meno materiale della società.