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Cosa sta succedendo nell’hotspot di Moria sull’isola greca di Lesvos?

I 600 curdi sfollati, l’immobilismo istituzionale e la diplomazia europea

La gabbia dove i residenti di Moria si mettono in fila per ricevere i pasti

Grecia – Nella giornata del 26 di maggio, nel campo di Moria, sull’isola di Lesvos, è scoppiata una rissa tra un gruppo di richiedenti asilo curdi e alcuni siriani residenti nella stessa sezione dell’hotspot.

L’accaduto ha condotto le ONG e gli enti operativi e sopraintendenti ad un controverso stato di emergenza. La colluttazione, infatti, ha causato una decina di feriti e, conseguentemente, alcuni nuclei famigliari curdi hanno deciso di allontanarsi da Moria non ritenendolo un luogo sicuro, preoccupazione condivisa, a conti fatti, da circa 600 residenti, tutti di origine curda, che, allarmati da potenziali scontri futuri, hanno abbandonato l’hotspot.

Gli sfollati sono stati in seguito portati dalle forze dell’ordine al campo non governativo di Pikpa, mentre altri hanno trovato rifugio nel deposito di Larsos, frettolosamente munitosi delle infrastrutture di base.

Il caso di Pikpa, a proposito, è esemplare per dare un’idea del paradosso istituzionale rispetto ai disordini di Moria e più in generale nei confronti della congestione nell’isola di Lesbo.

Il campo, infatti, che accoglie normalmente un centinaio di persone, ha dato rifugio nelle ultime due settimane a più di 300 curdi in fuga da Moria, molti dei quali condotti da parte delle forze dell’ordine sotto il controllo delle autorità locali, le stesse autorità che minacciano da mesi lo sgombero della ONG dall’ex campo estivo, dove, dal 2015, vengono garantiti ai migranti tre pasti giornalieri, assistenza sanitaria, beni di prima necessità e servizi igienici. Questa contraddizione si somma all’assurda richiesta, avanzata dalle istituzioni qualche giorno più tardi, rivolta agli operatori di Pikpa, di convincere gli sfollati a fare ritorno a Moria.

La richiesta ha comunque assunto ben presto il peso di un ricatto, designando che i migranti, che non si sarebbero presentati ai colloqui relativi alla richiesta di asilo, colloqui che si tengono solitamente all’interno dell’hotspot, avrebbero perso la loro posizione in graduatoria con conseguente archiviazione della pratica. Mentre il team legale di UNHCR si interrogava sulla legittimità del ricatto, le autorità greche e le istituzioni davano un’ennesima dimostrazione della loro assoluta inadeguatezza, o ancora peggio, della loro ostilità nella ricerca di una soluzione strutturale. Come se non bastasse, durante una riunione di coordinamento organizzata da UNHCR, il direttore dell’hotspot di Moria ha alluso ad un potenziale espediente per convincere le centinaia di curdi a fare ritorno al campo.

La strategia governativa, infatti, potrebbe realizzarsi nell’incremento del 30% di forze dell’ordine presenti nell’hotspot e nel trasferimento di 600 siriani da una sezione di Moria ad un’altra ancora da identificare, e persuadere così le famiglie curde a stabilirsi nello spazio vacante. Aumentare la sicurezza o, inverosimilmente, dislocare centinaia di persone da una sezione all’altra, risultano di fatto provvedimenti volti a tamponare un’emergenza che perdura da oltre due anni. Tra parentesi, la gestione dei servizi nel campo è stata da tempo affidata completamente alla ONG Euro Relief, organizzazione di natura estremamente cattolica, votata al più becero assistenzialismo, che esercita il controllo sui residenti attraverso l’assunzione di interpreti prettamente cristiani, i quali svolgono simultaneamente il ruolo di missionari informali.

Nel frattempo le riunioni di coordinamento presiedute dall’UNHCR diventano arene di futili discussioni per ONG più o meno interessate, alcune delle quali si definiscono “vittime” della negligenza governativa, rappresentanti della Commissione europea nelle vesti di inattendibili pacieri nel tentativo di scaricare velatamente le responsabilità sulle autorità greche, grandi assenti della riunione.

Da sottolineare, altrettanto, la totale assenza alle assemblee settimanali targate UNCHR, dei richiedenti asilo o di rappresentanti delle comunità migranti, ma, per loro, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite non ha mai previsto alcun tipo di invito alla partecipazione. Mentre gli enti e le autorità si riempiono la bocca di sublimazioni e polemiche sterili, le deportazioni dall’isola di Lesbo verso le coste turche riguardano già una ventina di richiedenti asilo in meno di due mesi, mentre sono più di un centinaio quelli segregati nel centro di detenzione di massima sicurezza del campo di Moria.
L’hotspot, in generale, pensato e costruito per ospitare 2.000 richiedenti asilo, ne “accoglie” più di 8.000, nonostante le statistiche dell’UNHCR ne stimino 3.000 in meno. Il campo si estende anche all’esterno delle mura di cinta, nella cosiddetta piantagione degli ulivi, dove migliaia di migranti hanno da tempo trovato rifugio in capanne e tende di fortuna, vivendo effettivamente senza alcuna sorta di infrastruttura e sistema di sicurezza.

Moria resta a tutti gli effetti un campo di concentramento occultato nell’entroterra dell’isola e non sorprende che, date le condizioni disumane, le risse siano all’ordine del giorno. Queste ultime, quando si verificano tra diverse etnie, vengono agevolmente strumentalizzate dalla destra, ma l’assist alla retorica razzista e xenofoba non è altro che il risultato delle politiche e degli accordi europei, della chiusura delle frontiere e del limbo burocratico del quale si servono i governi per ricattare i richiedenti asilo.