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“È omicidio volontario”: ecco come l’Europa esternalizza le sofferenze dei migranti che annegano in mare

Charles Heller, Lorenzo Pezzani, Itamar Mann, Violeta Moreno-Lax and Eyal Weizman, The New York Times

Il 6 novembre 2017 almeno 20 persone che stavano tentando di raggiungere l’Europa dalla Libia sono annegate nel Mediterraneo, sommerse dall’acqua non lontano da un gommone naufragato.

Nella stessa zona si trovava anche una nave di Sea-Watch, un’organizzazione umanitaria tedesca che aveva sufficiente posto a bordo per tutti coloro che si trovavano sul gommone. Avrebbe potuto portare tutte quelle persone in salvo in Europa, dove avrebbero forse potuto ottenere asilo.
Invece, 20 persone sono annegate e altre 47 sono state catturate dalla guardia costiera libica per essere ricondotte in Libia dove subiscono abusi di ogni tipo, non ultimi lo stupro e la tortura.

Questo conflitto in mare non è semplicemente definibile come un confronto tra Europa e Africa, sui diritti umani e soccorsi da un lato e caos e pericoli dall’altro. Si tratta piuttosto di un conflitto tra un’Europa e un’altra Europa, si tratta di volontari che lottano per salvare vite, danneggiati dalle politiche dell’Unione europea che esternalizzano la responsabilità del controllo delle frontiere alla guardia costiera libica allo scopo di arginare gli sbarchi sulle coste europee.

I governi europei finanziano, attrezzano e dirigono la guardia costiera libica e così facendo minano alla radice le attività di organizzazioni non governative come Sea-Watch, criminalizzandole o sequestrando le loro imbarcazioni o impedendo gli approdi ai porti alle navi che trasportano sopravvissuti.

Dal 2014, sono state più di 14mila le persone morte o disperse mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo centrale, ma diversamente dal solito, l’incidente del 6 novembre 2017 è stato ampiamente documentato.

La nave e i gommoni di salvataggio di Sea-Watch erano dotati di nove videocamere che hanno ripreso immagini e audio dell’accaduto. Anche i libici riprendevano in parte la scena con i loro cellulari.

I ricercatori di Forensic Architecture e Forensic Oceanography dell’Università Goldsmiths di Londra tra cui Charles Heller, Lorenzo Pezzani e Eyal Weizman hanno montato e sonorizzato i video aggiungendo dati del sistema di tracciamento navale, testimonianze dirette e altri elementi di fonti ufficiali ottenuti di recente e hanno prodotto una ricostruzione dei fatti minuto per minuto.

Il team Opinion Video del New York Times, basandosi su questo lavoro, ha ricavato il breve documentario visibile qui sopra al quale ha aggiunto altre testimonianze raccolte tra i sopravvissuti e tra i soccorritori che erano sul posto.

Questo studio ha messo in chiaro alcune cose: i governi europei non stanno assumendo la loro responsabilità giuridica e morale nella tutela dei diritti umani delle persone che fuggono dalla violenza e dalla disperazione economica. Ancor più preoccupante, i partner della guardia costiera libica con cui l’Europa collabora sono pronti a violare quei diritti se ciò impedisce ai migranti di attraversare il mare.

La ricostruzione di Forensic Architecture e Forensic Oceanography ha permesso di orientare gli eventi del 6 novembre nello spazio e nel tempo
La ricostruzione di Forensic Architecture e Forensic Oceanography ha permesso di orientare gli eventi del 6 novembre nello spazio e nel tempo

Fermare i migranti a qualsiasi costo

Per comprendere il cinismo delle politiche europee nella regione mediterranea è necessario capire il contesto giuridico. Secondo una sentenza pronunciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012, i migranti soccorsi da navi militari o civili europee devono essere sbarcati in un porto sicuro. Poiché la situazione politica in Libia è caotica ed è più che comprovato che nei campi di detenzione del paese sono perpetrati abusi di ogni sorta, significa che il porto sicuro è un porto europeo, di solito a Malta o in Italia.

Ma quando la guardia costiera libica intercetta i migranti, anche all’esterno delle acque territoriali libiche, come è accaduto il 6 novembre, i libici li riconducono nei campi di detenzione in Libia che non è soggetta alla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Per l’Italia (e l’Europa) questa è una situazione ideale. L’Europa può impedire alle persone di raggiungere le sue coste, declinando ogni responsabilità per quanto riguarda la loro incolumità.

Questa politica risale al febbraio del 2017, quando l’Italia e il governo libico di unità nazionale sostenuto dalle Nazioni Unite hanno sottoscritto un Memorandum d’intesa che forniva il quadro giuridico per la collaborazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani e al contrabbando. L’accordo enuncia chiaramente l’obiettivo, ossia arginare i flussi di migranti illegali e impegna l’Italia a fornire sostegno tecnico e tecnologico alle istituzioni libiche responsabili nella lotta all’immigrazione illegale.

Gli agenti della guardia costiera libica sono stati addestrati dall’Unione europea e il governo italiano ha donato o riparato numerose motovedette oltre ad aver contribuito alla definizione della zona libica di ricerca e soccorso. Da allora le autorità libiche, in violazione del diritto marittimo, tentano di interdire quella zona alle navi soccorso delle organizzazioni non governative mentre le navi della Marina italiana di base a Tripoli coordinano le azioni della guardia costiera.

Prima dell’intesa i libici riuscivano a intercettare e riportare in Libia ben pochi migranti, ora la guardia costiera libica è diventata un partner efficientissimo, tanto che solo nel 2017 ha intercettato circa 20 000 persone.

La guardia costiera è efficiente quando si tratta di impedire ai migranti di raggiungere l’Europa, ma non lo è altrettanto nel salvare vite, come dimostrano i fatti del 6 novembre 2017.

[Marco Minniti, allora ministro dell’Interno, davanti alla motovedetta coinvolta nell’incidente del 6 novembre]

Marco Minniti, al centro, all'epoca dei fatti Ministro dell'Interno italiano, di fronte alla nave coinvolta nell'incidente del 6 novembre. Ismail Zitouny / Reuters
Marco Minniti, al centro, all’epoca dei fatti Ministro dell’Interno italiano, di fronte alla nave coinvolta nell’incidente del 6 novembre. Ismail Zitouny / Reuters


L’opera di una politica letale

Quella mattina il gommone con i migranti a bordo che durante la notte aveva lasciato Tripoli, sulla costa libica, si trovava in condizioni difficili. Uno dei passeggeri chiede aiuto alla guardia costiera italiana con un telefono satellitare.
Per legge gli italiani devono allertare le imbarcazioni che stanno nelle vicinanze di un gommone in difficoltà, perciò la guardia costiera italiana comunica alla Sea-Watch la posizione approssimativa di quel gommone, ma contemporaneamente richiede l’intervento dei suoi omologhi libici.

La motovedetta libica Ras Jadir che interviene quella mattina è una delle tante riparate dagli italiani e restituita ai libici nel maggio 2017. Otto dei 13 membri dell’equipaggio sono stati addestrati nell’ambito del programma di lotta al contrabbando marittimo dell’Unione europea, noto come Operazione SOPHIA.
Ciononostante, i libici, invece di ammarare un battello di soccorso secondo le migliori pratiche, si sono avvicinati con la motovedetta Ras Jadir al gommone, togliendo qualunque speranza di salvezza a chi era già caduto fuori bordo e aumentando disordine e confusione.
In quella circostanza sono morte almeno 5 persone.

Ma le morti non sono state causate solamente dalla mancanza di competenza, infatti alcuni migranti portati a bordo della Ras Jadir, terrorizzati dalla sorte che li attendeva nelle mani dei libici, si sono rigettati in mare per cercare di raggiungere i soccorritori europei. Come si vede nelle riprese, la guardia costiera libica aggredisce con violenza i migranti rimasti.

La guardia costiera libica ha aggredito anche l’equipaggio della Sea-Watch con minacce e lanci di oggetti contundenti per allontanare la nave. Questo inasprimento della violenza deriva dal conflitto di obiettivi: il salvataggio da un lato e l’intercettazione dall’altro, mentre i migranti nel mezzo lottano disperatamente per le loro vite.

Oltre alle persone morte nel disordine e nella confusione, almeno altre 15 si sono annegate in attesa che una nave le soccorresse.

Eppure, nella zona i soccorritori non mancavano: un aereo di controllo portoghese aveva localizzato il gommone dei migranti dopo la richiesta di soccorso. Un elicottero della marina militare italiana e una fregata francese, che poi hanno dato un po’ di assistenza durante il salvataggio, erano nelle vicinanze.

Probabilmente la nave francese, schierata nell’ambito dell’operazione SOPHIA, avrebbe potuto raggiungere il gommone in difficoltà molto prima di chiunque altro, in tempo per salvare più vite umane. Abbiamo chiesto spiegazioni ai francesi, ma non ci è stata data nessuna risposta. In ogni caso la nave, anche se ha prestato un po’ di assistenza, durante l’incidente si è tenuta a distanza e non ha accettato a bordo nessun migrante: se lo avesse fatto avrebbe dovuto sbarcarlo sul suolo europeo. Questo è uno degli esempi di politica del “non intervento”, una politica che favorisce e rende addirittura inevitabile l’intervento libico.
[La nave della guardia costiera vicino al gommone dei migranti, messi così in pericolo. I libici non riescono a raggiungere i naufraghi, mentre la Sea-Watch cerca di intervenire.]

La vicinanza della Guardia costiera libica all'imbarcazione ha creato una situazione pericolosa. Con i libici incapaci di raggiungere coloro che cadevano in acqua, Sea-Watch è intervenuta a colmare il vuoto. Sea-Watch
La vicinanza della Guardia costiera libica all’imbarcazione ha creato una situazione pericolosa. Con i libici incapaci di raggiungere coloro che cadevano in acqua, Sea-Watch è intervenuta a colmare il vuoto. Sea-Watch

Una sfida giuridica

Sulla base della ricostruzione dei fatti accaduti, il Global Legal Action Network e l’Association for Juridical Studies on Immigration, con il sostegno degli studenti della Yale Law School, hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, a nome di 17 sopravvissuti dell’incidente di novembre.
Le persone che si occupano del ricorso, tra cui Itamar Mann e Violeta Moreno-Lax, sostengono che anche se gli italiani o gli europei non hanno fisicamente intercettato i migranti per riportarli in Libia, l’Italia esercitava un controllo concreto sulla guardia costiera libica mediante accordi reciproci, sostegno e coordinamento sul campo. Fare in modo che i migranti non cerchino protezione in Europa, impedendone la fuga e rinviandoli in un paese dove li attendono solo violenze e sfruttamento, è un compito che il governo italiano ha affidato ai libici perché sa perfettamente che svolgendolo direttamente sarebbe illegale.

Speriamo che, a seguito del ricorso, la Corte europea stabilisca che i governi non possono subappaltare i loro obblighi giuridici e umanitari a partner di dubbia affidabilità e che, se lo fanno, restano responsabili delle violazioni commesse. Un simile precedente costringerebbe l’intera Unione europea ad assicurarsi che la cooperazione con partner come la Libia non finisca col negare ai rifugiati il diritto di chiedere asilo.

Il ricorso assume particolare importanza in questo momento. In Italia, alle elezioni del marzo scorso, il partito della Lega di estrema destra, che ha condotto una campagna basandosi su una retorica radicale contro gli immigrati, ha ottenuto quasi il 20 per cento dei voti ed è entrato a far parte della coalizione di governo e il suo leader, Matteo Salvini, è ora il ministro dell’Interno.

Questo governo ha raddoppiato l’ostilità nei confronti dei migranti. A giugno, l’Italia ha compiuto un passo drastico e ha rifiutato l’approdo ai suoi porti a una nave umanitaria e da allora sta impedendo sistematicamente di sbarcare i migranti soccorsi, anche quando il soccorso è prestato dalla guardia costiera italiana.

L’irrigidimento repressivo italiano aiuta a spiegare perché i migranti in difficoltà al largo della costa libica non ricevano assistenza e siano lasciati alla deriva per giorni. Il nuovo governo italiano ha consegnato alla guardia costiera libica una nuova flotta di motovedette e il numero di migranti intercettati e riportati in Libia è aumentato. Tutto ciò ha reso la traversata ancora più pericolosa di prima.

Il comportamento che l’Italia sta mettendo in atto viola palesemente lo spirito della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la quale sancisce il diritto di chiedere asilo e vieta di respingere le persone verso paesi in cui la loro vita sarebbe minacciata. Una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che sanzionasse il comportamento del governo italiano permetterebbe di evitare l’esternalizzazione del controllo delle frontiere e le violazioni dei diritti umani che possono impedire alle popolazioni più diseredate del mondo di chiedere protezione e cercare dignità.

La Corte europea dei diritti dell’uomo non va certo considerata l’unico custode dei diritti fondamentali, ciononostante, un suo fermo intervento a sostegno della legge rispecchierebbe e rafforzerebbe l’impegno dei movimenti europei solidali con i migranti.