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Georgia – Le autorità statali non riescono a fornire una protezione adeguata che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave

Tribunale di Firenze, ordinanza del 2 febbraio 2019

La fattispecie oggetto del presente esame attiene ad un giudizio promosso – dinanzi alla Sezione Specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea del Tribunale di Firenze – ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 25/2008 per l’impugnazione del provvedimento di diniego della protezione internazionale pronunciato dalla Commissione territoriale di Firenze in data 08.11.2016 e notificato alla ricorrente il 19.01.2017 nei confronti di una cittadina georgiana, in quanto ritenuta scarsamente credibile e poco circostanziata, e che in ogni caso la sua storia di vita non integrava gli estremi per i benefici previsti dalla Convenzione di Ginevra, precisamente dello status di rifugiato. Inoltre, gli accadimenti riferiti dalla richiedente e le temute ripercussioni in caso di rientro nel paese di origine, non consentivano di pervenire al riconoscimento della protezione sussidiaria, né della protezione umanitaria.

In punto di fatto

La ricorrente di nazionalità georgiana, aveva dichiarato dinanzi alla Commissione Territoriale di essere originaria della Georgia, nata a Tskaltubo, luogo dove ha sempre vissuto fino al 2014, anno in cui giungeva per la prima volta in Italia.
Riferiva, inoltre, di provenire da una famiglia povera, composta dai genitori, ad oggi, entrambi deceduti, ed un fratello e di essersi successivamente sposata e di aver avuto due figli; è di religione cristiana ortodossa e non si riconosce in nessun gruppo etnico; aveva frequentato la scuola dell’obbligo e aveva frequentato per 2 anni il liceo; per anni ha provato a cercare lavoro ma non ha mai trovato un’occupazione che le permettesse di guadagnare uno stipendio con cui ottemperare ai bisogni primari per la famiglia e, pertanto, nel corso degli anni si era indebitata in maniera esponenziale in quanto anche lo stipendio del marito non era sufficiente a contribuire alle spese familiari. Successivamente, aveva trovato un impiego presso un ufficio postale a Tskaltubo, con qualifica di cassiera. Tale occupazione aveva impegnato la ricorrente per un periodo di circa 6 anni, allorquando, a causa di gravi problemi sorti con una collega che sotto minaccia voleva costringerla a porre in essere azioni illegali, quali appropriarsi indebitamente di somme di danaro riposte all’interno dei cassetti dell’ufficio postale. Purtroppo, non ha mai avuto il coraggio di sporgere denuncia per timore di ripercussioni sulla propria persona e soprattutto sulla sua famiglia e, nel corso del tempo, le vessazioni erano diventate sempre più frequenti fino a spingerla ad abbandonare il suo paese di origine. Successivamente, avvisata da alcuni colleghi dell’arresto della collega, la ricorrente, faceva ritorno a Tskaltubo ma la notizia risultava essere falsa, infatti, la collega-aguzzina, avendo saputo del ritorno della ricorrente si precipitava presso la sua abitazione esercitando violenza fisica sulla predetta. Così, il 12.09.2015 con un volo Tbilisi – Roma entrava regolarmente in Italia, precisamente a Firenze ove veniva assunta come badante con un regolare contratto e, attraverso detta occupazione, aveva trovato serenità, soprattutto, riusciva ad aiutare i propri familiari attraverso degli spostamenti di denaro sul conto corrente del figlio ed era in condizione di poter pagare i debiti contratti. Purtroppo, permaneva e tutt’oggi permane, per la ricorrente, il pericolo di rientro nel paese di origine.
Dinanzi al Giudice la ricorrente ha sostanzialmente confermato di aver lasciato il suo Paese per ragioni di persecuzione ed ha riferito le violenze e vessazioni subite dalla ex collega dell’ufficio postale.
Come sopra accennato, la Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Firenze negava alla ricorrente, il riconoscimento dello status di rifugiata e di forme complementari di protezione.
Pertanto, in data 24.07.2018, avverso il diniego, la cittadina extracomunitaria, proponeva ricorso ai sensi dell’art. 35 d.lgs 35/2008 dinanzi alla sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Firenze e, previa sospensiva del provvedimento impugnato, insisteva nel rito per la nullità del provvedimento impugnato emesso a suo dire in violazione di legge, nel merito per il riconoscimento in suo favore dello status di rifugiata od in via subordinata della protezione sussidiaria, ovvero in ulteriore subordinazione la protezione umanitaria ex art. 5, comma 6, del D.lgs 286/98. Non si costituiva la parte resistente sebbene regolarmente convenuto in giudizio.

In punto di diritto

Il Giudice del Tribunale di Firenze con l’ordinanza in esame, preliminarmente faceva rilevare che l’esame e l’accertamento giudiziale delle domande nell’ambito del settore della protezione internazionale sono caratterizzati dal dovere di cooperazione del giudice e dal principio di attenuazione dell’onere della prova (art. 3 d.lgs. n. 251/2007 e art. 8 d.lgs. n. 25/2008; Cass. 8282 del 2013, si veda inoltre Cass. n. 18130/2017); inoltre, il quadro normativo prevede un esame riservato, “individuale, obiettivo ed imparziale”, articolato sulle “circostanze personali del richiedente”, (art. 3, co. 3, lett. a) e c) d.lgs. 251/2007) sull’eventuale documentazione presentata nonché su “tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al momento dell’adozione della decisione”. L’art. 3 comma 5 del d.lgs. n. 251 del 2007 prevede che, nel caso in cui alcune dichiarazioni del richiedente non siano sostenute da prove, si ricorra ad una serie di indici integrativi che guidano il giudizio di attendibilità; in particolare, se il richiedente non ha fornito la prova di alcuni elementi rilevanti ai fini della decisione, le allegazioni dei fatti non suffragati da prova vengono ritenute comunque veritiere se: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) è stata fornita un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni rese sono coerenti e plausibili e correlate alle informazioni generali e specifiche riguardanti il suo caso; d) il richiedente ha presentato la domanda il prima possibile o comunque ha avuto un valido motivo per tardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è attendibile (v. Cass. 6879/11).
Inoltre il giudice rilevava che il racconto giudiziale della ricorrente è apparso sovrapponibile con le dichiarazioni rese alla Commissione Territoriale; la donna non si è sottratta ad interrogativi più puntuali rivoltile dal Giudice ed ha fornito una ricostruzione circostanziata e dettagliata della vicenda che l’ha portata a espatriare; per questi motivi il racconto si ritiene verosimile e nel complesso credibile.

Il Tribunale fiorentino rilevava ancora che va riconosciuto lo status di rifugiato al “cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure se apolide si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale e per lo stesso timore sopra indicato non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione previste dall’articolo 10 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251”. Anche ai sensi degli artt. 7 e 8 del d. lgs. 251/2007 il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato è l’esistenza di atti di persecuzione subiti dal cittadino straniero nel proprio Paese, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, non potendo o, a causa di tale timore, non volendo avvalersi della protezione di tale Paese; nel caso di specie, le circostanze rappresentate dalla ricorrente non integrano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, non essendo emerso alcun fatto relativo a una persecuzione personale e diretta, qualora egli rientrasse nel proprio Paese, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica; per quanto riguarda il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 2 lett. g) del d. lgs. 251/2007, la protezione sussidiaria viene concessa al cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma in relazione al quale sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno, come definito dall’art. 14 del d. lgs. 251/07, non potendo o, a causa di tale rischio, non volendo, avvalersi della protezione di detto Paese. Ai sensi dell’art. 14 citato, sono considerati danni gravi:
a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte;
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine;
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;
per quanto concerne la protezione sussidiaria ex art.14 lett. a) e b) d.lgs. 251/2007 (per le ipotesi di condanna a morte, tortura eo trattamenti inumani o degradanti, nonché la persecuzione individuale), ai sensi dell’art. 5 della stessa legge, la minaccia deve provenire da un soggetto molto forte, quale lo Stato, partiti o organizzazioni che controllano il territorio, mentre quella da parte di soggetti non statuali (bande criminali, sette, etc.) ha rilevanza se lo Stato o le organizzazioni che controllano il territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione (nel senso che non consentano l’accesso da parte del richiedente a un sistema giuridico che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave); nel caso di specie, la rappresentazione dei fatti realizzata dalla ricorrente può essere inquadrata nell’alveo della persecuzione individuale sub art. 14 lett. b), in virtù delle intimidazioni perpetrate dalla signora e dal marito, e delle percosse inferte alla ricorrente, circostanze di cui la medesima ha fornito dettagliata descrizione, e come confermato, peraltro, dalle vicine di casa nelle dichiarazioni scritte versate agli atti (cfr. documenti con relativa traduzione depositati in PCT in data 29.1.2019);
sulla possibilità per la ricorrente di denunciare le angherie subite, al fine di ottenere tutela giudiziaria adeguata nel proprio Paese, si nutrono forti dubbi, visto quanto riportato dal documento del Ministero dell’Interno in cui si legge: “Alla sezione Diniego ad un giusto processo (…)
Sebbene la costituzione e la legge prevedano una magistratura indipendente e dei progressi in materia di riforme giudiziarie si siano registrati a fine dicembre, rimangono segnali di interferenze nel sistema giudiziario. Il presidente, il difensore pubblico e le ONG hanno manifestato le loro preoccupazioni riguardo alla pressione sui giudici, agli incarichi giudiziari, alla promulgazione di leggi concernenti la Corte costituzionale, alla riforma penale, alle assegnazioni dei casi, al giusto processo, al riesame degli appelli e alla difesa obbligatoria. La legge non prescrive un termine massimo per le indagini sui casi, ma prevede un periodo massimo per il processo, se la persona è detenuta. Nel 2015 il codice di procedura penale è stato modificato per richiedere ai tribunali di primo grado di emettere un verdetto entro 24 mesi dalla conclusione dell’udienza preliminare“.
Tutto ciò, in un contesto sociale di diffusa criminalità, visto che nello stesso documento si legge anche: “Secondo il rapporto del 2017 sul crimine e la sicurezza in Georgia del Consiglio consultivo per la sicurezza all’estero, il crimine continua a rappresentare una preoccupazione nonostante l’istituzione di una presenza professionale di forze dell‟ordine attiva in materia di applicazione della legge“.

Sulla scorta di quanto addotto, il Tribunale giustifica il riconoscimento della protezione sussidiaria.

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Tribunale di Firenze, ordinanza del 2 febbraio 2019