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Good luck, buona fortuna

Camilla Donzelli, operatrice legale in un CAS

Photo credit: Gabriel Tizon (FB/gabrieltizonfotografo)

Io, A. l’avevo già notato diverse settimane prima del nostro incontro ufficiale.

Era una di quelle classiche mattine grigie e nervose all’Ufficio Immigrazione della Questura. Stavo in piedi nella sala d’aspetto stracolma, schiacciata fra una donna con lo chador coloratissimo e un nigeriano tanto alto da offuscare completamente la mia visuale verso il lato opposto della stanza.

Cercavo di tenermi il più possibile vicina all’ampia finestra affacciata sul piazzale di cemento, giusto per poter dare di tanto in tanto uno sguardo al cielo e scacciar via quel tremendo senso di soffocamento.

D’un tratto, con la coda dell’occhio, mi sono accorta di una figura dall’altra parte del vetro. Stava lì, fermo e concentrato, ad ispezionare il riflesso del proprio viso nella finestra. Credo stesse monitorando l’insorgere di un brufolo all’angolo della bocca, totalmente noncurante del fatto che una folla di gente lo stesse osservando perplessa. Io mi trovavo esattamente davanti a lui, e lo guardavo divertita ed ammirata.

Aveva i capelli lisci e nerissimi che gli ricadevano sulla fronte, occhi altrettanto neri e ciglia lunghissime. Ho subito pensato che fosse molto bello. Così com’era bello quel suo modo disinvolto di fare davanti a centinaia di persone quello che chiunque, normalmente, farebbe davanti allo specchio del bagno di casa propria. Incuriosita, ho continuato ad osservarlo anche dopo, mentre camminava avanti e indietro nello spiazzo davanti alla sala d’aspetto.

Passeggiava silenziosamente, buttando di tanto in tanto la testa all’indietro per guardare il cielo con gli occhi socchiusi. La sua figura emanava una certa leggerezza, totalmente in disaccordo con la cappa di angoscia che abitualmente avvolge quell’ufficio della Questura. Era come se fosse capitato lì per caso. Come se fosse slegato da ciò che lo circondava.

Qualche settimana dopo ho ricevuto una telefonata. Mi si chiedeva di accompagnare in Questura un ragazzo palestinese che voleva rinunciare alla richiesta di asilo. Ci ha chiesto supporto perché quando è andato da solo nemmeno l’hanno fatto entrare, diceva la voce dall’altra parte.

Ma certo, non c’è problema, ho risposto io, fremendo già all’idea della discussione che sicuramente avrei avuto con i poliziotti. Cinque minuti dopo lo schermo del mio telefono si è illuminato: nome e numero del ragazzo in questione, che avrei incontrato direttamente la mattina successiva davanti all’Ufficio Immigrazione.

Alle otto del mattino, coi muscoli ancora intorpiditi, ero lì. Faceva freddo, mi ero svegliata alle cinque e mezza ed una pioggerellina finissima rendeva ancora più cupo il triste edificio della Questura. Il nome era troppo complicato da pronunciare, così mi sono limitata a comporre il numero e a dire ciao, sono Camilla non appena qualcuno ha risposto dall’altra parte. Ma la conversazione telefonica è durata giusto quei pochi istanti che ho impiegato per pronunciare la frase, perché lui era già lì davanti a me.

L’ho messo a fuoco, incredula. Era proprio lui, il ragazzo della finestra. Sventolava la mano, il viso illuminato da un bel sorriso bianco. Era nel bel mezzo del piazzale, appoggiato ad un ombrello scuro ed enorme, con il manico di legno affusolato, che conferiva qualcosa di anacronistico alla sua immagine. Mi sono avvicinata in fretta e ci siamo presentati. Ora, senza quel vetro di mezzo, riuscivo a percepire tutte le sfumature del suo sguardo: profondità, nostalgia, gentilezza e quella commistione di orgoglio, rabbia e rassegnazione che riposa nel fondo degli occhi di un po’ tutti i palestinesi.

A. parlava fluentemente un inglese che lui definiva “di strada” e si comportava come se ci conoscessimo da una vita. Scherzava in continuazione e mi raccontava i più svariati aneddoti, accostando con naturalezza le labbra al mio orecchio per non disperdere le parole nella sala d’attesa gremita. Era stanco di aspettare una risposta che non arrivava mai, mi diceva, e rivoleva indietro il suo passaporto per cercare fortuna da qualche altra parte in Europa. Ridendo, mi raccontava di aver provato a fare la rinuncia più di venti volte. Nemmeno l’avevano fatto entrare. La volta precedente il poliziotto all’ingresso gli aveva addirittura strappato i documenti sotto agli occhi.

Così, esasperato, aveva chiesto che qualcuno del centro di accoglienza lo assistesse in questa cosa, in teoria semplice ma di fatto resa impossibile dalla scarsa voglia dei poliziotti. Ecco la ragione del mio intervento.

Dopo ore di attesa, una sedia si è liberata e A. ha insistito perché fossi io a sedermi. Mi si è accovacciato accanto e, con gli occhi fissi nei miei, ha cominciato a raccontarmi della sua vita in Palestina. Il lavoro di parrucchiere, i fratelli, la giovane moglie e quella perenne sensazione di vivere in una prigione. Una grande prigione a cielo aperto, dove i ruoli e le ragioni si confondono. L’unica cosa certa è che non si ha scelta. E allora si scappa, sperando di trovare un posto in cui avere la pelle olivastra e parlare arabo non sia una colpa inestinguibile. Nel raccontare A. ironizzava su tutto, in maniera tagliente ma al tempo stesso ingenua, e benché percepissi nettamente la gravità e la pesantezza delle sue parole non riuscivo a smettere di sorridere. E lo stesso faceva lui, con un velo di rassegnazione che di tanto in tanto gli adombrava il viso e gli abbassava le spalle.

Terminata la nostra conversazione, A. si è allontanato per andare a salutare un gruppo di amici ghanesi. Si davano pacche sulle spalle e ridevano rumorosamente. In quel momento ho capito quanto fosse fuori posto in quel luogo così tremendamente grigio. La sua allegria, la sua parlantina, tutto cozzava con la situazione. Lui, lì dentro, era l’unica cosa giusta.

Alla fine, dopo un’intera mattinata, ci hanno chiamati. Ci siamo avvicinati allo sportello e mentre la poliziotta faceva scivolare il passaporto sotto la fessura del vetro divisorio osservavo le mani di A., frementi e cariche di speranza, che tradivano la sua espressione solenne.

Una volta usciti gli ho chiesto se fosse contento. Ha buttato la testa all’indietro, ha chiuso gli occhi in un’espressione di sollievo e aprendo la braccia ha esclamato I feel free now! Tornando insieme verso la fermata dell’autobus mi ha detto che avrebbe provato ad attraversare il confine con la Francia. Con un po’ di imbarazzo – come si può convivere serenamente con l’essere europei in questo periodo storico? – ho provato a spiegargli che non sarebbe stato facile. Che avrebbe corso dei pericoli, che l’avrebbero bloccato e rimandato indietro innumerevoli volte. Ma lui era deciso.

Ormai non aveva più nulla da perdere. I’m young and I’m wasting my life, all this waiting…who will give me back the time I’ve lost? mi ha detto. Non ho potuto far altro che annuire, vergognandomi.

Abbiamo continuato a camminare in silenzio fino alla fermata dell’autobus. Lì ci siamo divisi per proseguire ognuno nella propria direzione. Ci siamo stretti la mano e gli ho augurato buona fortuna.

Una prima volta, guardandolo negli occhi.

Una seconda, sussurrando fra me e me mentre lo vedevo rimpicciolirsi attraverso il finestrino dell’autobus.
Chissà dove sei ora, A.