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I braccianti di Saluzzo #4

di Ilaria Ippolito, Associazione Eikòn - ottobre 2017

Photo credit: Federico Tisa
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Devo parlarti di una cosa importante, ma non qui” mi dice H. con aria seria mentre, come tutte le settimane, siamo a “Guantanamò” a chiacchierare con i ragazzi di lavoro, diritti, permessi di soggiorno e futuri spostamenti.

Ci spostiamo in un posto più tranquillo e H., che non mi aveva mai raccontato nulla della sua storia, è un fiume in piena. Parla della sua vita in Gambia, dei genitori che non ci sono più, del fratello cieco a causa di un incidente sul lavoro, di suo figlio, della necessità di scappare perché “troppo stanco della povertà del mio paese, perché non hai scelta quando tutti dipendono da te e il lavoro non basta”. H. ha sempre fatto il serramentista e ha svolto tantissimi altri lavori pur di garantire alla sua famiglia una condizione migliore. Ha lavorato in Niger per tre anni, poi è partito per la Libia ma dopo un anno ha deciso di ripartire in cerca di condizioni di vita migliori, “Non potevo restare in Africa e far morire tutti di fame, dovevo provare a venire in Europa”.

Era il 2015, anno di inizio della lunga attesa di H. Richiesta di asilo, centro di accoglienza prima nel Sud e poi nel Nord Italia, attesa logorante in vista dell’audizione in Commissione Territoriale e attesa per avere un esito che tarda ad arrivare. “Sono arrivato due anni fa e ancora non so se devo tornare in Gambia. Sono stanco, devo sapere, io chiedo e nessuno mi risponde. Non si può stare 2-3 anni così, seduto su una sedia senza fare nulla ad aspettare una sola cosa: una risposta. Sono un serramentista, volevo fare una scuola per questo qui in Italia ma niente, mi dicono solo di aspettare ma io voglio sapere se ci sono possibilità o no”.

Photo credit: Federico Tisa
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H. ha le lacrime agli occhi, la sua sofferenza è evidente ed è difficile starlo ad ascoltare senza partecipare al suo dolore. Mi chiede il senso di tutto questo, il senso di tenere un uomo di 35 anni, un padre, in attesa di poter iniziare a costruire quel futuro per cui è scappato e ha rischiato la vita. Nel frattempo lavora come stagionale nella raccolta della frutta, ha anche delle promesse di assunzione date le sue numerose competenze, ma non sa ancora se potrà rimanere in Italia. H. vuole sapere, deve sapere, perché l’attesa gli sta togliendo il sonno, le forze e la speranza.

In Italia, in media, l’audizione davanti alla Commissione avviene circa 252 giorni dopo la presentazione della domanda a cui bisogna aggiungere dai 3 ai 9 mesi per avere una risposta. È evidente che il disagio psichico non è solo la conseguenza dei traumi subiti prima dell’arrivo in Italia, ma il prodotto di un sistema di accoglienza che ha tempi di risposta lunghissimi e di una gestione del flusso migratorio che, sostanzialmente, non prevede canali di ingresso regolari e sicuri. È dunque complesso pensare di distinguere le persone in arrivo tra richiedenti asilo e “migranti economici”. Sono, infatti, numerosi gli esiti di protezione umanitaria per le persone provenienti da paesi con gravi e oggettive difficoltà economiche e povertà diffusa come ad esempio il Gambia.

Testo di Ilaria Ippolito
Foto di Federico Tisa