Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

IX rapporto sul viaggio in Bosnia del 2-6 maggio con aggiornamenti fino a giugno

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, operatori indipendenti

I

I nostri rapporti hanno sempre un taglio che tiene conto della soggettività di chi scrive. Può essere considerato un limite, in termini d’informazione (come ci è stato fatto rilevare, indirettamente, ad es., da Are you syrious?).
Per chi interviene in situazioni complesse e drammatiche informare con precisione è un gesto politico di base, la premessa per allargare le possibilità e capacità d’intervento, per combattere il silenzio e l’invisibilità che è sempre stato uno degli strumenti essenziale del potere. Per noi, tuttavia, è altrettanto importante comunicare un’esperienza, soprattutto quando è fondamentale, sul piano umano e su quello politico (in realtà, le due dimensioni si fondono). Nel contesto cui ci riferiamo, soprattutto, non può esserci una separazione netta fra una dimensione ‘soggettiva’ e una dimensione ‘oggettiva’. La comunicazione dei dati non può prescindere dalla situazione e dalle modalità con cui vengono raccolti, che è relazionale, emotiva, partecipativa. In particolare, le storie personali sono un documento essenziale ma anche ambiguo, perché chi si racconta dall’interno di una condizione di vita drammatica, rischiosa, può anche farlo per nascondersi piuttosto che per manifestarsi, può variare il racconto in rapporto all’interlocutore per ottenere qualcosa.

Il 2 maggio 2019, risaliamo per l’ennesima volta la strada collinare che porta al confine croato-bosniaco di Maljevac dietro a cui, su un’altura, sorge subito Velika Kladuša. A differenza di quest’inverno, quando incombevano cupe sulle tortuosità della strada, le colline ora primaverili ci accolgono con il loro verde intenso – abbiamo visto perfino le cicogne! – , ma il pensiero va a chi si nasconde dentro quel tenero verde. Dopo oltre dieci mesi di viaggi nella Bosnia dei migranti, non siamo più capaci di contemplare il paesaggio. Non è più una superficie, ma una profondità, al cui interno ci si può nascondere, si può faticosamente andare avanti, annegare in un fiume, cadere in una dolina o essere catturati, picchiati, ricacciati al punto di partenza.
Noi, invece, viaggiamo tranquillamente e tranquillamente superiamo i confini. Non siamo uguali ai migranti e non lo saremo fino a quando non ci sarà una lotta, un’azione, comuni: fine ultimo – ma remoto – del nostro modesto impegno. Quando i ‘ragazzi’ si affollano intorno a noi per chiedere qualcosa, percepiamo con forza questo muro invisibile ma reale, invalicabile, che ci rinserra in un ruolo umanitario. Per il momento non abbiamo altro, ma dobbiamo insistere, consistere nelle situazioni, senza farci ossessionare dalla mancanza di sbocchi chiaramente politici (per ora), continuare a tessere reti di solidarietà. Ci troviamo in situazioni molto complesse, troppo complesse per noi, che spesso ci sovrastano e ci sfuggono, ma l’atteggiamento di fondo che ci guida è: starci dentro.

A Velika Kladuša, incontriamo per la seconda volta la maestra Zehida, dal bel volto composto, che continua con regolarità il suo impegno di supporto alimentare ai migranti, cui offriamo un buono alimentare da 500 euro nel supermercato Suda Luka. Andiamo subito in quella che chiamiamo la strada dei migranti, dove c’è il ristorante, gestito da SOS team Kladuša, che distribuisce 400 pasti al giorno. Qui incontriamo Valentina, italiana, e Ricardo, spagnolo, che stanno lentamente cercando di rimettere in piedi No Name Kitchen, dopo la chiusura di fatto dell’associazione in Bosnia. Ora lavorano nel ristorante e danno anche assistenza sanitaria.
Al nostro arrivo abbiamo conosciuto alcune volontarie/i internazionali – la cui presenza non è comunque garantita per lungo periodo – che supportano il lavoro delle docce e del magazzino ricavato all’interno di quello spazio. Tutt’intorno, una umanità dolente bisognosa di tutto.
Qui si nota subito qualcosa di significativo dell’attuale situazione dei migranti in Bosnia: i ragazzi dentro e intorno al luogo di ristoro, presso cui c’è anche un locale di distribuzione di indumenti e scarpe e anche una sorta d’infermeria, sono solo nordafricani: tunisini, marocchini, in prevalenza, e algerini. In altro orario e in altro luogo i volontari distribuiranno a pakistani, afgani, iracheni e altri del Medioriente. Per quel che ne capiamo, dai nostri primi viaggi nell’estate dell’anno scorso, la tensione fra etnie è molto aumentata, forse anche per il maggior numero di nordafricani, che sembrano avere una tradizionale discordia nei confronti dei mediorientali (Riceviamo, in data 5/067019 la notizia di una grave rissa fra algerini e afgani, appunto, che ha coinvolto diverse dozzine di migranti, con feriti, fra cui tre poliziotti. Un poliziotto ha anche sparato in aria. Sono stati fermati più di 20 migranti e sei saranno espulsi dal cantone Una Sana).
L’attaccamento alla propria cultura è perfettamente comprensibile, quando non si ha nient’altro: si confonde con i legami con i parenti rimasti in patria. È lunga la strada verso quella presa di coscienza che alcuni chiamano del proletariato nomade: la divisione fra poveri è sempre stata l’arma dei potenti. Esiste, inoltre, una differenza di classe anche fra migranti: ci sono quelli che hanno più denaro e che provengono da ceti che possiamo definire borghesi, quelli che ne hanno di meno, quelli che non ne hanno. Il denaro dei migranti alimenta ovviamente le complesse reti dei passeur che usano automobili, pulmini, camion, treni merci.
Parliamo a lungo con Valentina e Ricardo, profondamente consapevoli delle difficoltà in cui si dibatte l’associazione per cui lavorano, soprattutto a causa del suo impegno di denuncia della violenza dei respingimenti della polizia croata (fiancheggiata da Frontex) e quindi dei limiti del loro lavoro. Ricardo conclude: almeno sanno che c’è qualcuno che s’interessa e si occupa di loro.

A Kladuša incontriamo ancora, nell’unico locale frequentato prevalentemente da migranti, gestito da un albanese, l’anziano ex ufficiale di Saddam, già conosciuto, che ci appare ormai provato dai respingimenti e dal lungo soggiorno nella cittadina. Lo sguardo fiero, l’atteggiamento dignitoso, insiste con fermezza per pagarci la cena. Condivide una stanza – si fa per dire – in affitto con altri migranti. La sua famiglia, con moglie, figli e due nipotini, è da 4 anni in Austria, ma è stata respinta con la motivazione di non aver imparato la lingua e trovato un lavoro. Pensa ora di raggiungere Lubjana dove vorrebbe ricongiungersi con i familiari che, sicuramente, rischiano la deportazione. Il progetto ci appare difficile. In realtà, poi abbiamo saputo che ha preso la direzione opposta, rifacendo la rotta a ritroso e raggiungendo l’isola greca di Chios. Quale futuro per questa famiglia composta da tre generazioni? Il nostro interlocutore ricorda con nostalgia i tempi di Saddam. Mentre lo ascolto, non posso non pensare al modo in cui Saddam massacrò i curdi iracheni. Dalla caduta dell’Impero ottomano, un secolo fa, quelle terre, racchiuse nei confini inventati da Gran Bretagna e Francia, non hanno più conosciuto pace.

Nel ristorante dell’albergo Vrata Bosne, in cui siamo ospiti, in mezzo alla musica sempre alta, osserviamo i giovani bosniaci, ragazze (ogni tanto, raramente, qualcuna velata) e ragazzi che chiacchierano, mangiando o bevendo, in un’apparente normalità ‘ occidentale’. Qui i migranti non possono più entrare, ma non ci dicono niente se uno siede con noi invitato al nostro tavolo.

Nel tardo pomeriggio del 3 maggio partiamo per Bihac, passando per il cupo angolo vallivo dove si trova l’hotel Sedra – uno dei quattro contenitori di profughi (famiglie) del Cantone Una Sana –, in cui non siamo riusciti a metter piede.
Per strada incontriamo gruppi e gruppetti di migranti in cammino per il “game” tra l’indifferenza generale (almeno così sembra).
Quando arriviamo davanti al Bira camp troviamo uno spettacolo indegno: decine di ragazzi sono stesi sul cemento bagnato dalla pioggia insistente, i più fortunati con le coperte della mezzaluna rossa. Un gruppo di 4 palestinesi fra cui un ragazzino di circa 11 o 12 anni, ci chiedono di intercedere con IOM per entrare nel campo. Pare che non possano accedere nonostante il capannone sia mezzo vuoto. Non capiamo bene la logica, ma ci rammentiamo che nella sessione straordinaria del Comune di Bihac del 4 aprile, il sindaco Sahret Fazlic ha suggerito di spostare il “Bira” camp nell’area catastale 1384 chiamata Vucijak, una ex discarica piena di veleni a ridosso del confine croato.
Lì accanto ci aspetta un ragazzo con una grave infezione contratta durante il “game” da cui è stato respinto per l’ennesima volta. Con lui compriamo i farmaci necessari e, grazie ai contributi dei nostri donatori, siamo in grado di offrirgli 3 notti in un albergo in modo che possa curare la ferita piuttosto grave in ambiente pulito. Al Bira camp, si sa, la scabbia è endemica e pure la gastroenterite non risparmia nessuno.

L’albergo lo accoglie grazie al tesserino azzurro dello IOM e grazie al fatto che facciamo da garanti pagando subito in euro. Non viene tuttavia ospitato al primo o secondo piano, bensì all’ultimo, destinato ai migranti dove il lungo corridoio sa di umido e di misero bucato ed è intasato di stendini con biancheria ad asciugare. Nonostante tutto, anche lì, lo stato di migrante è una discriminante.
Più tardi, a sera, nell’albergo ceniamo con Hussein e Fuad.
Le loro storie, che diventano poi la loro storia, sono esemplari.
Hussein è un palestinese nato in Siria da una famiglia di profughi palestinesi della prima ora. Suo nonno si è rifugiato in Siria nel 1948. Otto anni fa è partito da Homs per “fuggire le bombe della guerra”.Siria, Libano e Giordania non hanno concesso i documenti di asilo. I genitori sono dovuti ritornare in Palestina: a Gaza! Hussein, figlio di una dinastia di profughi, è ora al Borici di Bihac.
Hussein al Borici ha incontrato Fuad, un ragazzino di 14 anni appena compiuti. Durante la vita boschiva del “game” ha contratto un virus che gli ha rovinato un polmone. E stato operato a Sarajevo: parziale asportazione dell’organo ammalato. Hussein ha assistito Fuad come un fratello maggiore e, attualmente, dopo la parentesi ospedaliera a Sarajevo, sono ospitati insieme al Borici, l’ex casa dello studente di Bihac, ristrutturata tra novembre e dicembre 2018.
Al Borici non siamo riusciti ad entrare poiché la nostra tensione era spostata sulla possibilità di ottenere i permessi per il Bira camp ed incontrare Alì, il rifugiato dai piedi in necrosi. Tuttavia, parlando con diversi migranti, abbiamo raccolto giudizi pesanti sulla gestione del “Borici” che ci è stata descritto come una prigione dove vige un rigore poliziesco con controllo dei cellulari e delle conversazioni. Pare che spesso la tensione sia talmente alta, che sorgono zuffe e lotte sedate dalla sicurezza in modo brutale. Ci è stato riportato l’episodio del 14 febbraio quando le guardie private sono intervenute colpendo ragazzi e bambini a caso e ferendo un padre, la madre e il figlio piccolo “the security beat them because no one reason”. “No one reason” ci ripetono i migranti: “siamo spesso trattati peggio degli animali”, in particolare dalle guardie giurate che non nascondono il loro razzismo e il loro disprezzo.

Il giorno dopo andiamo con Hussein sulla Pljesevica, la montagna boscosa che domina Bihac, su cui passa il confine con la Croazia. Attraverso una strada costruita per il trasporto di legname, si arriva ad una ex casa forestale. “Ex”: il semplice prefisso indica un nodo del rapporto attuale fra migranti e bosniaci, cittadini di Bihac e dintorni. Un’abitante di Bihac ci dice che, fino a un anno fa, la casa era in ottime condizione e meta gradita di escursioni familiari. Oggi l’edificio a due piani, con sottotetto, tettoia con focolare, è semplicemente devastata – come per una guerra. E di una guerra in qualche modo si tratta o di conseguenze di guerre occidentali in Medioriente, Africa…
Entriamo in questa desolazione. In una stanza vediamo due corpi, pesantemente addormentati, avvolti in coperte troppo leggere… Nelle altre stanze materassini di plastica rotti, rifiuti di ogni genere: ovunque si legge l’impatto fluviale del passaggio continuo di gente in fuga. Questa casa è la rappresentazione perfetta di un non luogo, di un passaggio da altrove verso altrove: la profuganza. Questa casa è un esempio della contraddizione fra i profughi migranti – coloro che passano – e i cittadini di Bosnia e di Bihac – coloro che restano. Quest’estate non era così. La mancanza della volontà politica di affrontare il problema dei profughi delle rotte balcaniche da parte di tutti: UE, ONU, governi centrale e locali bosniaci, produce un disagio profondo nelle popolazioni stanziali, aumenta la sofferenza dei migranti, aumenta e accelera i passaggi verso uno sperato altrove: aumenta le misure di contenzione se non di imprigionamento delle varie autorità balcaniche ed europee; aggrava tutto senza risolvere nulla. E ciò fa comodo a molti – politicamente.
Intorno alla casa, alcuni cartelli rossi col teschio indicano il pericolo di mine inesplose.
Poco distante, una lapide, a ricordo della morte di giovani croati nella guerra degli anni Novanta.

Nel silenzio umido del bosco pomeridiano, questi simboli sembrano lanciare un grido silenzioso. Sentiamo con forza tutta la violenza cieca del confine, segno di un’identità che uccide.
Ritornando verso Bihac, a un certo punto della strada, sorgono all’improvviso dalla boscaglia un uomo con bimbo sulla spalle – il bimbo avrà due o tre anni -, poi altri uomini e donne e cinque o sei fra bambine e bambini. Uomini giovani, meno giovani. Una bambina ha un orsacchiotto sullo zainetto… una ventina in tutto. Sono Kurdi. Di Kobane. Nei primi brani di conversazione, alcuni si dicono del PKK. Visto che siamo italiani, intonano Bella ciao.

ALÌ

Abbiamo parlato prima di simboli. In questo paese, in questa situazione, tutto diventa simbolico. Il simbolo è qualcosa di concreto che assume la funzione di rimandare al cerchio più ampio, invisibile, che determina il visibile. Ed ecco Alì, il caso estremo del migrante che ha perduto i piedi e la testa, simbolo della violenza ottusa e feroce che si abbatte su questo tipo di movimento migrante, violenza che mira solo a contenere e a respingere, da una parte; dall’altra a utilizzare la paura dell’estraneo per riempire autoritariamente il vuoto istituzionale dell’UE e degli Stati europei nel tempo storico della conclusione dell’esperienza della democrazia liberale.
Alì nella carriola, Alì sul pavimento del suo container, sporco d’urina… Alì è il migrante che dopo sei anni di Germania, paese in cui ha anche avuto un figlio, ritornato in Tunisia in visita ai genitori, non viene più accolto in Germania. Prende allora la via balcanica. Fermato in Italia e rispedito indietro, bloccato in Bosnia, ritenta il “game“, nuovamente ricacciato indietro dalla polizia, torna in Bosnia a piedi nudi con le estremità congelate. Allora, oltre alle dita dei piedi, comincia a perdere anche la testa, non vuol farsi curare. La burocrazia internazionale e locale non sa o non vuole ricorrere alla nomina di un tutore parentale (il fratello in Tunisia) e Alì, vaneggiante, finisce prima su una scandalosa carriola, poi sul pavimento del container, tra la puzza dei suoi escrementi.

KLJUC

Uscendo da Bihac per andare a Kljuc incontriamo sul ciglio della strada, sotto la pioggia, in direzione opposta, verso Bihac, diversi gruppi di ragazzi con il passo di chi cammina sulle uova: respinti dal “game“. Ci fermiamo con due afgani che ci raccontano quella che possiamo amaramente chiamare la solita storia: derubati dei soldi, privati di sacco a pelo e vestiti di ricambio, bruciati i cellulari…
A Kljuc, la cittadina ai confini con la Repubblica Srspka, divenuta discarica di migranti in soprannumero rispetto ai numeri stabiliti fra il cantone Una Sana e il governo centrale, incontriamo ancora l’efficiente e tenace Sanella, che fa il possibile e anche di più per sostenere chi arriva. Dice: “I dont can stop!“.
Qui incontriamo il gruppo del momento, in una situazione che cambia continuamente, composto da una ventina di persone: iraniani (fra cui tre donne), afgani, pakistani. Da qui non è possibile tornare indietro verso Bihac e il confine. I migranti devono fare giri tortuosi, tra fiumi e colline per guadagnarsi la rischiosa possibilità di varcare il confine con la Croazia.

II Storie minime

Velika Kladusa o la discarica umana

Erano le cinque del mattino della grigia giornata di venerdì 3 maggio quando sono ritornati a Kladusa.
Nessun dio li ha protetti dopo che avevano trovato riparo dalle piogge insistenti dentro la chiesa abbandonata. Catturati da Frontex a pochi km dall’Italia, sono stati consegnati alla polizia croata che li ha derubati, malmenati, spruzzato gli occhi con il peperoncino, rotto i cellulari e “depositati” alle 3 del mattino 25 km prima del confine con la Bosnia. Tra rassegnazione e disperazione, con gli occhi vuoti, soli, persi, abbandonati, raccontano le ormai solite e note violenze ma, la più agghiacciante riguarda l’incontro con “una coppia uomo/donna che si aggira armata nei boschi a caccia dei migranti per fare il tiro a segno”.

30 euro di avarizia

Nella cucina di SOS team Kladusa un ragazzino magrissimo, incapace quasi di profferire parola dallo sconvolgimento che s’intuisce nel suo corpo e nel suo essere, colpisce per l’impotenza e per l’inerzia a cui si è abbandonato. Non chiede nulla, sta solo appoggiato alla grigia umida parete della stanza in cui si accalcano i migranti in un vai e vieni continuo. I suoi occhi sono muti, le sue labbra secche, i vestiti sporchi, il corpo spezzato, addosso gli rimane intrisa la fatica, il sudore, l’odore di terra e fango.
È stato respinto dal “game” alle prime ore del mattino. Adesso è accasciato contro il muro quasi a trovare un sostegno materiale che gli regga l’anima a pezzi. Non ha più nulla: non il cellulare che è stato rotto, non lo zaino che è stato bruciato, non un centesimo che è stato sequestrato. Non un po’ di umanità perché, commenta, lui è marocchino e tutti i ragazzi del magreb vengono pestati dalla polizia croata. Chiede, con molto ritegno e con visibile vergogna, il biglietto di ritorno a Sarajevo dove cercherà di essere rimpatriato. Costa 25 euro e come prova di onestà ci prega di comprarglielo perché lui, ha bisogno solo di quello. Non regge più, non ce la fa più. I suoi 17 anni sono un grumo malconcio di muscoli doloranti. Gli lasciamo 30 euro. Nel nostro timore di essere inghiottiti dalle tante altre storie simili alla sua che ci ronzano attorno, gli porgiamo solo 30 euro. Una piccola avarizia che non sappiamo più perdonarci.

L’ex ufficiale di Saddam

Lo sguardo fiero, la postura energica, il volto scavato da rughe profonde, il fardello sempre pronto per una partenza che non avverrà mai, è l’uomo di quell’Iraq sconvolto dalla caduta di Saddam. Lo conosciamo dall’estate scorsa; un anno di battaglie perse, di “game” sempre più faticosi, di respingimenti violenti che gli hanno portato via dieci chili di peso. Mesi fa, ci riferiva con orgoglio, camminava per 35 km al giorno durante il “game” nei boschi. Oggi, non riesce ad ammetterlo, ma il suo fisico non regge più. Troppi stenti, troppa nostalgia, troppa vita consumata in uno spazio senza tempo. Nessun documento che sancisca la sua esistenza. Eppure è lì con i suoi gesti, il suo volto scolpito, la sua dignità. Non chiede nulla, solo di passare. Non passerà. Il suo ultimo tentativo nel giorno della nostra partenza fallisce a pochi km dal confine. Un post in FaceBook lo ritrae a Chios, solo, esiliato di nuovo nell’isola in cui era arrivato a rischio della vita e da cui era partito verso la Bosnia carico di sogni. Fine di una grande speranza. In un suo messaggio si coglie la nostalgia di chi ha perduto tutto: “Bagdad, you are my soul and my blood”

Scarpe turche

Ci sono scarpe e scarpe. Quando poi le scarpe sono quelle super economiche, appena sopra il livello dei negozi cinesi in Bosnia, non trovarle più negli scaffali fa venire il panico. In questi mesi avevamo notato prima le enormi tende e poi, in tempi successivi, le coperte con la mezzaluna rossa all’interno dei camps per migranti. Ci dicevano che era un bene, che dovevamo essere grati alla Turchia che sosteneva i fratelli musulmani rifugiati in Bosnia. Sarà. Noi conosciamo anche altre versioni, ad esempio quella per cui l’Europa paga Erdogan per “trattenere” le genti dentro i suoi confini. Poiché i confini sono sempre porosi, forse la Turchia si è ora allargata alla Bosnia ed oltre che nei camps è sbarcata anche negli scaffali, con le sue scarpe.
Scegliere un paio di scarpe è stata un’impresa. I numeri non esistono e al loro posto è stampato un conteggio incomprensibile. Di qualità non è il caso di parlarne: si tratta di una plastica che si scioglie fra le dita. Pensiamo al “game” e al bisogno di suole che siano almeno forti e robuste. 15 o 20 giorni di cammino su per pendii vertiginosi o giù per discese boschive umide e scivolose, consumano non solo le scarpe ma piagano i piedi in modo irrimediabile. Con nostalgia pensiamo alle nostre “Sport original” e immaginiamo che se i confini non sono sufficienti, se i droni non li scovano tutti, se Frontex se li fa sfuggire, forse saranno le scarpe turche a farli fallire questi migranti che pensano solo a “passare”. Non importa se passare ad ogni costo è passare per vivere.

no option

Immagina che qualcuno non abbia il diritto di lavorare per studiare, per viaggiare. Puoi immaginare te stesso un giorno quando viaggi in macchina e non ti lasciano entrare!?”. È la suggestione con cui Hussein t’inizia alla sua storia. Di origine palestinese, i suoi nonni furono cacciati con la Nakba. Nato a Homs, cresciuto in Siria, ha cercato asilo in Egitto, in Sudan, a Mosca, in Malesia, Indonesia, Cambogia, Laos, dovendo continuamente spostarsi ogni tre mesi in quanto privo di passaporto, mai cittadino di qualche Stato ma sempre e solo rifugiato UNHCR. È così risalito dalla Turchia in un barcone di 70 persone che si è rovesciato ed è vivo per miracolo. Rimasto 3 anni in Grecia ha poi attraverso la Grecia, l’Albania, il Montenegro, la Bosnia per arenarsi a Bihac, ai confini con la Croazia. Le innumerevoli volte in cui è partito per il “game” sono state un fallimento fisico e morale. A febbraio, la neve l’ha colto di sorpresa sulla Plješevica, nella catena delle Alpi Dinariche dove i campi sono seminati di mine dell’ultima guerra. L’ha protetto il riparo in un rifugio dallo squallore incredibile senza però risparmiargli una grave polmonite: “Ho vissuto qui 20 giorni. Non potevo tornare indietro, non potevo andare avanti; le mine?! Si avevo paura ma no options”. Ora, ho un solo sogno – conclude – rivedere mia madre. Lei mi chiama tutti i giorni ma io ho paura di risponderle, mi si spezza il cuore sentire la sua voce e le sue lacrime. Se non la incontrerò nella vita reale, ci incontreremo in paradiso”.

Piccole storie che fanno la storia

Lo troviamo fuori dal camp Bira in strada senza cibo, senza coperte, sotto la pioggia. L’infezione alla gamba contratta nel penultimo “game” è ancora putrescente e va disinfettata nonostante tutto. Sul lercio asfalto estrae le bende e l’acqua ossigenata ma gli mancano i cerotti grandi e la crema antibiotica è terminata. È qui dal mattino, respinto per l’ennesima volta. “Sono stato respinto dal “game” 8 volte, picchiato, derubato, umiliato. In Croazia anche le pecore chiamano la polizia. Quando ti vedono, tu non li vedi, ma loro chiamano la polizia che ti aspetta al varco. Quando ti arrampichi per le montagne devi aggrappati con le unghie; per la fatica finisci subito l’acqua e la sete è peggiore della fame. Quando piove, i fiumi sono in piena e rischi di annegare. I tuoi piedi si riempiono di vesciche e camminare fa molto male. But, no option… Sono l’unica speranza di vita per mio padre è mia madre”. I confini sempre più chiusi e crudeli, finora non gli hanno lasciato speranza. Ogni volta che è respinto al punto di partenza, resta fuori dal campo. Escluso dallo spazio ed escluso dal tempo. Reso inesistente. Aveva lasciato la sua Aleppo a 15 anni, ora ne ha solo 17.

Just the life is going”, la vita che se ne va

Non so cosa voglia il destino da me. Prima ho perso tutta la mia famiglia, poi questo viaggio. Dura da due anni. Cosa posso fare ora? Il mio cervello è bloccato, pensa e pensa e ripensa, è sempre lì sullo stesso punto. Vorrei uccidermi. Sono solo in questo mondo”.
No one stop us. We can try again again.

Se le storie non si raccontano è come se non fossero mai successe

Lui, il padre, era stato scovato nei boschi in Croazia tempo fa. In questo pomeriggio di pioggia sta ora preparando due borse di plastica con le bottiglie d’acqua e altre cianfrusaglie pronto a riprendere il “game” verso sera. Ha un’ossessione: deve raggiungere il figlio di 15 anni, sfuggito alla cattura ma sequestrato dagli smugglers nella stazione centrale di Milano, a cui ha dovuto pagare un costoso riscatto per liberarlo. Il ragazzino ora è salvo ma ha delle turbe psichiche, frutto delle violenze subite. Ritroveremo questo padre 20 giorni dopo a Trieste, in una situazione fisica penosa con un diabete da quattro insuline al giorno. Una notte, non di più, per riprendersi, ha chiesto al centro di accoglienza dove l’abbiamo accompagnato. Poi via di nuovo alla ricerca di questo figlio, nella speranza di trovarlo prima che altri smugglers trovino lui. Una foto che ci giunge dopo molti giorni, lo ritraggono in treno con un ragazzino dal volto ingenuo e provato e una scritta: “we are safe”.

Domenica 5 maggio sulla strada di Kljuc

È un demone vendicatore quello che costringe una bimba siriana gravemente sofferente a stare stesa esausta su un pezzo di cartone gettato a terra in un posto senza dio. A essere atroce non è solo la sua vita senza infanzia, ma la febbre che le scuote di brividi il corpicino. Ieri era stata deportata dal Bira camp assieme alla famiglia e scaricata lungo lo stradone che volge a Sarajevo. La sua vita come quella della madre e della zia è priva di valore e di interesse per alcuno, tranne che per Sanella Lepiriza, unica volontaria ad occuparsi di questa “merce” umana trattata come immondizia. Accanto a lei altri 13 ragazzi fra cui alcuni minorenni e vari feriti ai piedi, giacciono in uno stato di prostrazione dentro il garage che oggi è offerto come riparo dalla pioggia ma domani non si sa. Sulla statale staziona la polizia 24 ore su 24. Nessuno può proseguire verso Bihac, tutti invece possono andarsene verso Sarajevo anche se non hanno un marco bosniaco in tasca per pagare il biglietto della corriera. La pioggia e il grigiore tingono di un lucore disperato questa scena di gruppo.

Sulla Pljesevica

Piove, la pioggia cade senza tregua da giorni. Alle 10 del mattino la temperatura è di 2°. Fra poco sicuramente nevicherà. Nessun bosco qui è innocente. Il suo passato si piega sul presente e il futuro è una morsa che precipita sulla linea del tempo. Da un crinale di questi boschi minati vediamo risalire un gruppo di curdi fra cui sei bambini. Il più piccolo 2 anni, la più grande 5. Sono tutti zuppi, bagnati, le belle testoline grondanti d’acqua. Non sono dei “neglects”, anzi, l’amore dei genitori veglia su di loro in modo passionale. Le lacrime mi scendono senza volerlo. Lo stupore della bimba più grande è il dolore vero. Nelle mie lacrime involontarie, c’è tutta la coscienza dell’infanzia sottratta; nell’espressione meravigliata di questa bimba che continua ad interrogarmi con lo sguardo, che non capisce perché io pianga, c’è intatto lo stupore e la domanda: “che cosa c’è di strano?”.
Quando un bambino ritiene che sia normale non andare a scuola, che sia normale attraversare boschi e confini sotto la pioggia con il pericolo delle mine, degli orsi, dei lupi, dei droni; che sia normale nascondersi e fuggire, che sia normale essere catturati e respinti, allora, forse, abbiamo fallito tutti.
No options” ci rispondono i genitori quasi a rassicurarmi e diventano figurine lontane lungo lo sterrato che li inghiotte nei boschi di confine.

L’imbuto esistenziale di Alì

Che fine ha fatto Alì? Era la nostra domanda prima di partire alla volta di Bihac.
Ogni giorno succede a quello precedente, ma l’immagine dei piedi neri di necrosi e di quel corpo buttato in una carriola, è un tormento che non può non interrogare tutti noi. Nel buco di quella carriola si è persa ogni ragione. Alì è la carne, è il corpo assurto a simbolo dell’imbuto esistenziale in cui lui e noi abbiamo toccato il fondo.
Quando lo incontriamo, dopo i sofferti permessi richiesti allo IOM e DRC, la carriola è scomparsa ma Alì è un corpo buttato a terra che si trascina e striscia fino alla porta del suo container per guardare il “mondo” fuori dal lui. L’incubo della sua realtà è mitigato dalla follia di un sogno impossibile. Ogni delirio contiene una parte di verità e Alì sa bene che se si lascia amputare i piedi, non potrà più ritornare dal suo figlioletto in Germania. La sua allucinazione lo protegge e lo illude d’essere ancora una persona intera, capace ancora di desiderare e amare chi non ha più. Le sue ali lo rendono leggero, al di là del reale, unica sopravvivenza alla fine cui si è consegnato.

Siamo tornati

Siamo tornati. Sono tornata con il dolore per quello che non ho potuto fare, per i bambini che sono in “game” lassù sulla montagna, per quelli che sono scaricati lungo la strada di Kljuc, per chi oggi abbiamo visto ritornare dal “game” sotto la neve simile a straccio umano. E poi Alì dai piedi neri, Mubeen con la sua infezione, Hussein senza patria, Fuad con i suoi 14 anni appena compiuti, operato al polmone e con la febbre che lo assale. Ai nostri confini di terra si consuma una guerra non dichiarata, che arriva ogni giorno anche nelle strade della nostra città di Trieste, approdo doloroso della rotta balcanica.

III

Il nostro contributo

Totale ottava raccolta fondi = 4.308,00 euro più un cellulare + 42 marchi bosniaci

Rammentiamo che in Bosnia è ormai sempre più difficile operare per cui è essenziale orientare gli aiuti in modo che non vadano dispersi o non diventino oggetto di scambio al mercato nero.
A Kladusa, No Name Kitchen è stata chiusa nei mesi scorsi; SOS team Kladusa (associazione non registrata) è tuttora in sofferenza ed ha visto il rientro di una volontaria, mentre ad un’altra volontaria era stato dato il foglio di via. A Bihac la gestione della migrazione è in mano allo IOM e tra le Ong, solo IPSIA è accreditata all’interno.
A chi dunque destinare i fondi o in chi riporre la nostra fiducia? Questa domanda rimane attuale e l’esperienza ci ha insegnato a legare la fiducia alla verifica dei progetti e delle situazioni che andiamo a sostenere.
Dal nostro penultimo viaggio nel Cantone Una Sana, ci è stato più chiaro orientarci riguardo ai Soggetti cui destinare le donazioni nonostante il contesto riguardo ai migranti sia in continuo cambiamento.
A Velika Kladusa abbiamo mantenuto il riferimento della nostra volontaria che aiuta circa 60 migranti, in particolare famiglie con bambini che vivono negli squat, alla quale abbiamo lasciato un buono spesa alimentare concordato con il supermarket Suda Luka
Ai volontari di No Name Kitchen, che prestano la loro opera di volontariato nella cucina di SOS team Kladusa, abbiamo lasciato una donazione consistente, comperato scarpe ed intimo ai magazzini Bingo.

BIHAC

La prima segnalazione di aiuto è stata per un minore di 17 anni respinto dal “game“, con una infezione importante all’altezza della caviglia al quale, grazie alle donazioni, abbiamo garantito un supporto significativo (farmaci, 3 gg. in motel per consentirgli un ambiente pulito dato che al Bira camp c’era epidemia di gastroenterite e scabbia endemica, sostegno economico).
Alla presidente di una Associazione abbiamo lasciato un contributo per gli acquisti di alimenti che lei stessa cucina personalmente e distribuisce ai ragazzi e famiglie migranti.
Al Bira camp, dove abbiamo incontrato Alì la mattina del 6 maggio, ci siamo ancora una volta confermati nella validità dell’angolo di socializzazione del thé. Questa volta abbiamo scelto di contribuire solo per i casi vulnerabili destinando una donazione per le cure dei casi vulnerabili non coperti da assistenza IOM mentre un altro contributo è stato destinato alla situazione tragica di Tuzla.

KLJUC

Abbiamo incontrato nuovamente la volontaria Sanella Lepiriza che continua da sola a garantire un’assistenza minima ai migranti deportati e abbandonati in una piazzuola lungo la strada di Velecevo che porta a Sarajevo. Le condizioni delle persone lasciate lì nel nulla erano davvero penose, in particolare quella di una bambina deportata, seriamente ammalata, ma dimessa dall’ospedale nonostante fosse bisognosa di cure. La donazione è stata destinata all’acquisto dei biglietti per Sarajevo, ai farmaci e generi alimentari.

Il resoconto dettagliato voce per voce è leggibile nel gruppo dei donatori.

N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi comprensive di vitto, alloggio, carburante, sono sempre state a nostro carico.

Grazie a tutti e tutte per aver reso possibile questo aiuto che non è solo assistenziale ma esprime una solidarietà politica occupandosi, appunto, del bene di una comunità ai margini della vita.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".