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Il progetto “Filiere. Dietro l’etichetta”

Un’intervista ad Antonello Mangano, giornalista di terrelibere.org

D: Come è nato il progetto “Filiere. Dietro l’etichetta”, chi coinvolge e come si articola?

R: L’idea nasce dall’esigenza di raggruppare in un’unica pagina le diverse informazioni che nel corso degli anni io e i miei compagni abbiamo raccolto, in particolare tenendo in considerazione la memoria e la cronologia di quello che è accaduto, ma anche il contesto in cui si inseriscono. Infatti un problema attuale è quello di limitarsi al racconto di cronaca senza considerare lo scenario in cui si esplica. Il progetto “Filiere. Dietro l’etichetta” ha lo scopo di mettere insieme i pezzi e di mantenerne memoria, anche digitale, per far presente e ricordare che ciò che sta accadendo ora ha in realtà origini più remote. Si tratta infatti di fenomeni trentennali; molti parlano di “nuovi schiavi” ma in realtà ci troviamo di fronte ad uno sfruttamento diffuso e brutale nato da molto tempo.

D: Come è cambiato geograficamente e socialmente lo sfruttamento del lavoro nel settore agricolo?

R: In buona parte nasce dal primo afflusso di migranti nel sud Italia. Con lo scorrere del tempo l’Italia è diventata sempre meno ambita come destinazione e perciò la gente che arrivava e che arriva la vede come una fase di stallo in cui attendere semplicemente un riconoscimento e trovando, nel frattempo, come unica forma di lavoro quella agricola.
Di conseguenza anche zone insospettabili come il Chianti e il Piemonte in generale hanno attinto a questo bacino di manodopera, di persone intrappolate. La cosa più assurda in questa storia è il ruolo dello Stato: da un lato cerca di rimediare al caporalato e dall’altro ne è in gran parte la causa stessa.
Con questo accesso ai documenti incredibilmente lento e per niente scontato, considerando i numerosi dinieghi, si crea per l’appunto la situazione ottimale per molte aziende che puntano al risparmio.
Un altro stereotipo è quello che tutte le aziende per stare sul mercato sono costrette a sfruttare, in molti casi purtroppo è vero ma in altrettanti no. Ne sono un esempio le aziende del Chianti che, nonostante la grande capacità di competere sul mercato, approfittano della manodopera ricattabile costituita da persone ai margini della società e schiavizzate, frutto di scelte politiche e migratorie deliberate e alla mercé del mercato del lavoro.

D: Noti un cambiamento nella presa di coscienza dei braccianti sul loro stato di sfruttamento?

R: Bisogna sempre distinguere le varie situazioni perché nelle campagne si incontrano persone completamente diverse tra loro. Ad esempio possiamo trovare lavoratori sindacalizzati e combattivi presenti da lungo tempo in Italia e con una storia operaia al nord alle spalle, piuttosto che migranti giunti dalla Libia e inseriti in un centro di accoglienza che lottano per i documenti e la sopravvivenza loro e della famiglia a cui mandano i pochi soldi guadagnati e con alla base la volontà di continuare il proprio percorso migratorio in un altro paese.
In quest’ultimo caso quindi la speranza non è quella di migliorare la propria condizione bensì di abbandonarla.
Altro discorso, più limitato, vale invece per i migranti dell’Est che hanno come obiettivo quello di interrompere il proprio percorso migratorio, di costruire casa e famiglia con il vantaggio però di avere frontiere aperte (almeno per ora).

D: Secondo te qual è il percorso da intraprendere per uscire da questa condizione?
Cosa possiamo fare noi consumatori per stravolgere la filiera “sporca” e non essere conniventi con questo sistema?

R: Per quanto riguarda i migranti come primo passo sono fondamentali i documenti, la casa e il lavoro. Ovviamente anche il lavoratore italiano deve prendere parte alla difesa di questi diritti e capire che non si tratta di un semplice gesto di solidarietà bensì di una lotta che porta avanti anche per se stesso.
Per quanto riguarda invece il consumatore, penso che sia necessario che non veda più distinti i consumatori dai lavoratori ovvero che non pretenda di consumare a basso costo ed al contempo lamentarsi dei salari bassi, concetti intrinsecamente collegati perché chiaramente una merce a basso costo presuppone un costo del lavoro compresso. Bisogna chiedere perciò ai supermercati di riconoscere il giusto prezzo che significa ovviamente lottare per salari più alti e parallelamente rifiutare di comprare delle merci che costano pochi centesimi.

D: A tuo parere i social media possono essere un nuovo mezzo di informazione valido per mettere in luce queste tematiche e suscitare una risposta collettiva concreta e dal basso?

R: Anche se nati per scopi di livello ben più basso possono essere in questo caso dei contenitori che, riempiti di contenuti utili e grazie alla loro capacità di moltiplicazione, diventano strumenti che consentono la circolazione di informazioni di qualità che permetta di andare oltre gli stereotipi e di creare consapevolezza. Proprio per questo una parte molto importante del progetto consiste anche nella raccolta firme per chiedere alla GDO di darci quelle informazioni di base che sono un diritto del consumatore e cioè conoscere l’eticità dei produttori.

D: Oggi giorno il cibo assume un ruolo sempre più rilevante nella società, d’altronde oltre a sfamarci e nutrirci, in particolar modo qui in Italia, è identificativo della storia e della cultura di un popolo. Tuttavia, oggi più che mai, tende a dividere piuttosto che unire: sfruttati (per non dire schiavi)/sfruttatori, consumatori ricchi/poveri. La sostenibilità alimentare, intesa nei confronti dell’ambiente e delle persone, viene sempre più a mancare. Come potrebbe declinarsi secondo te una nuova rivoluzione della filiera?

R: Come detto precedentemente non bisogna comprare solo prodotti che costano di più ma anche lottare per salari più alti perché altrimenti non usciamo dalla contraddizione e anche l’eticità diventerà un lusso per ricchi.
Oggi il ghetto è un modello di produzione in cui si riducono i costi per fare concorrenza con prodotti a basso prezzo e salariati che sopravvivono a stento, un vero e proprio circolo vizioso che deve essere interrotto. In questo senso il discorso è molto più ampio e non mira solo ad eliminare i ghetti e le baraccopoli esistenti ma soprattutto a cambiare questo tipo di modello iniziando a ridistribuire il denaro che circola.