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In bici a Sabra e Chatila

di Claudia Terragni, Un diario dal Libano - agosto 2016

Foto: beirutandbeyond.org

Beirut, agosto 2016

A Padova ci sono biciclette ovunque. Girano tutti in bici: universitari, bambini, anziani, da soli o in due, su vetture più o meno scassate. Sotto la pioggia e con il sole, la bici è una compagna di viaggio imprescindibile. Le biciclette sono uno degli aspetti di Padova che mi ha rubato il cuore e che mi ha convinto a studiare lì.
A Beirut abbiamo visto forse tre bici in tutto. Sarebbe una pazzia usarla lì, significherebbe venire investito seduta stante dal primo taxi che passa. Il traffico invalicabile e la guida spericolata creano un costante scorrere e incastrarsi di macchine, moto e pulmini. Per scegliere di prendere la bici nella capitale libanese devi essere davvero disperato.

In realtà non so neanche quanta gente la sappia usare, la bici. In Brianza, dove sono cresciuta, si impara presto, a maggior ragione abitando vicino allo splendido Parco di Monza. Uno spazio verde, protetto e tranquillo dove ritirarsi a ingranare le prime pedalate senza rotelle. È divertentissimo vedere i genitori che corrono dietro a bimbetti con la testa raddoppiata dal volume del casco che ondeggiano tra i prati, a cavallo del loro bolide.

Anche in Libano abbiamo visto un bambino imparare a usare la bici. Era a Sabra e Chatila, dove solo un bambino può pensare di poter diventare un ciclista.
Sabra e Chatila non è un quartiere dove un turista medio andrebbe a rilassarsi a fumare la shisha. Ma noi non siamo turisti, siamo dieci ragazzi partiti con Caritas per un Cantiere della Solidarietà. E vogliamo vedere. Non può certo passare inosservato il luogo orribilmente noto dal 1982, quando in soli due giorni si consumò uno dei più agghiaccianti massacri della storia mediorientale. Quando i Falangisti Libanesi appoggiati dagli Israeliani ammazzarono barbaramente i civili palestinesi. Tra i 1.500 e i 3.000 morti.

Foto: Marta Bianchi
Foto: Marta Bianchi

Chatila è uno dei 12 campi profughi palestinesi riconosciuti dall’UNRWA (United Nation Relief and Works Agency for Palestine Refugee). Questi campi non sono tendopoli come quelli di Idomeni o di Calais, ma veri e propri quartieri delle città. Nonostante a Sabra e Chatila le condizioni abitative siano raccapriccianti ci sono campi ancora peggiori, che noi non abbiamo potuto visitare per questioni di sicurezza.

Non è recintato, non ti rendi conto di oltrepassare una fantomatica soglia, almeno non da dove siamo passati noi. Cammini, guardandoti intorno e fantasticando sulla melodica voce del muezzin che invita alla preghiera. Avanzando verso il quartiere alla periferia di Beirut il canto islamico mi sembra più intenso del solito. Più imperativo. Non si vede il minareto da cui provengono le parole arabe. Risuonano imperiose per la via assediata da palazzi alti e fatiscenti. Cadono dall’alto e si schiantano ovunque, esplodono nelle nostre orecchie come bombe. Suonano come un monito, come per metterci in guardia su dove ci stiamo dirigendo. Come a ricordare la macabra sacralità del posto dove neanche quarant’anni fa ha avuto luogo uno dei più gravi massacri mediorientali (era il 1982). Cammini e non te ne rendi conto e la voce del muezzin si allontana e il numero di persone aumenta e ti ritrovi inglobato in un frastuono di persone, urla, merci, odori, vicoli.

All’improvviso devi stare attento a non perderti, aumentare il passo per non dare troppo nell’occhio, concentrarti per non urtare i passanti, sporchi e irritati, e per non calpestare le merci del mercato e dei negozi. Le bancarelle dalle tende sporche strabordano di frutta e spezie dalle ceste di legno e plasticaccia, con pezzi di cartone con scritte in pennarello nero. Qualche negozio sparge per terra fuori dall’entrata i vestiti che svende. Perché lo fa?! La strada non è certo pulita, ci sono rifiuti, acqua sporca, liquidi maleodoranti che impregnano l’asfalto.

I palazzi di pochi piani sembrano cadere verso l’interno delle vicoli, instabili, indeboliti per i fori dei proiettili, inginocchiati dal peso dei fili elettrici che si mischiano ai tubi dell’acqua che uniscono le finestre da un lato all’altro della strada, come funi di un veliero fantasma. Un nave vittima di un arrembaggio, forse, che ancora non è riuscita a riprendere il controllo e continua a perdere acqua e vacillare. Alcuni vicoli sono davvero impenetrabili e in alcune “case” non arriva neanche la luce del sole.

C’è puzza di piscio e ovunque sono appesi cartelli con le enormi faccione idolatrate di personaggi politici palestinesi. I rifiuti sono sparsi un po’ovunque e in alcuni antri aleggia il tanfo di spazzatura bruciata. La gente ti osserva, i ragazzetti ci ridono dietro, alcuni sguardi sospettosi ti inseguono, altri ti scrutano in cagnesco, altri sono talmente stanchi da aleggiare nel vuoto spenti, altri ancora ti supplicano per qualche moneta. Mi sento perennemente osservata. Ma mi ripeto che è solo un’impressione e il pestifero fluire della vita a Sabra e Chatila continua inarrestabile a prescindere dalla mia presenza.

Tra le insegne ne sbuca timidamente una di una di Medici Senza Frontiere. Le coordinatrici, tre ragazze che vivono in Libano da un anno per il servizio civile, ci raccontano di varie iniziative promosse da più associazioni per cercare di rispondere ai bisogni primari non soddisfatti in quel posto. Forse qualche speranza c’è. Ma appena fuori dal campo, l’immagine del bambinetto che tenta di farsi largo in bici tra la folla di Chatila predomina su ogni speranza. Cosa fai? Come fai a pedalare qua, tra la gente che ti urta, i rifiuti, le bancarelle? E poi dove vuoi andare con la tua bici mezza rotta? Te la ruberanno nel giro di un secondo i ragazzi più grandi, mingherlino come sei. E poi a Beirut in bici ti investono, figurati se non ci sai neanche andare.

Forse però la sua ingenuità ha portato questo bambino più lontano di me. La resilienza è una risorsa illimitata. Lui usa la bici perché la vuole usare, perché non importa. Non importa chi è lui e non importa dove si trova. È un bambinetto mingherlino e vuole usare la bici. E quindi la usa, anche a Sabra e Chatila.

Claudia Terragni