1. Come scrive l’Avvenire “La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha respinto la richiesta avanzata dalla nave Sea Watch 3 affinché siano adottate “misure provvisorie” che consentano l’approdo sulla terraferma delle 42 persone migranti, a bordo della nave da 13 giorni. Nessuna misura provvisoria, dunque. La conferma è arrivata dalla stessa Cedu. Immediato il commento del ministro dell’Interno Salvini: «Anche Strasburgo ci dà ragione, porti chiusi». La Cedu, nella sua decisione, fa sapere che “conta sulle autorità italiane affinché continuino a fornire l’assistenza necessaria alle persone a bordo di Sea Watch 3, che sono vulnerabili a causa della loro età o delle loro condizioni di salute”. Forse a Strasburgo ritengono che la Sea Watch 3 possa diventare una prigione galleggiante se non un “place of safety” a tempo indeterminato. Verso quale porto dovrebbe fare adesso rotta, secondo i giudici europei ? Verso Tripoli, come ritiene Salvini? Che senso ha richiamare il superiore interesse del minore non accompagnato, e ordinare la nomina di un tutore, come sembra suggerisca il giudice di Strasburgo, se poi non si garantisce lo sbarco piu’ sollecito possibile a terra in un porto davvero “sicuro”?
La decisione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, un atto di “ignavia”, se non peggio, che si ricordi bene, riguarda solo la misura cautelare ( ordine di ingresso in porto) richiesta dal comandante della nave e da alcuni naufraghi. Nonostante questa elementare considerazione, che i grandi media nascondono, sta avendo un impatto enorme sull’opinione pubblica ed alimenta l’arroganza del ministro dell’interno italiano che rilancia la sua sfida ai diritti umani ed ai cittadini solidali. Dietro la decisione dei “porti chiusi”, frutto anche degli accordi e dei codici di condotta del precedente governo, si agglomera una massa di italiani che sfoga il suo odio e la sua frustrazione contro qualche decina di persone, “colpevoli” di non essere rimaste sotto tortura nei lager libici o di non essere annegati in alto mare. Perché questo significa delegare alla sedicente Guardia costiera libica le operazioni di soccorso/intercettazione in quella che è definita come SAR libica, dal 28 giugno 2018, ma di fatto è ancora controllata dalle autorità italiane ed europee, come ha rilevato anche la magistratura italiana.
Osserva Vittorio Alessandro, già contrammiraglio della Guardia costiera, “Il respingimento del ricorso #SeaWatch alla #CEDU, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, legittima il divieto di concludere il soccorso non solo in Italia, ma in qualunque altro porto europeo che neghi l’accosto, compreso quello di bandiera (comunque, un eventuale viaggio in Olanda iniziato 13 giorni fa su rotte impossibili e con 54 persone a bordo, compresi donne, bambini e malati, non sarebbe ancora concluso).
Con l’assenso della Corte, dunque, la nave dovrà rimanere in alto mare fino a quando tutte le persone, via via, necessiteranno di intervento sanitario urgente. Questo è il verdetto, e vedremo chi si permetterà di raccogliere migranti dal mare, ora”.
La Corte europea di Strasburgo “respinge” così i diritti umani, e reitera una decisione interlocutoria, dopo il diniego già comunicato alla Sea Watch 3 quando il ministro dell’interno aveva bloccato la nave in rada a Siracusa, lo scorso gennaio. Anche se, in quell’occasione, le procure di Siracusa e di Catania non avevano trovato nulla da eccepire sul comportamento degli operatori umanitari ed alla fine i naufraghi erano stati fatti scendere a terra. Adesso invece, la stessa magistratura inquirente di Catania, nel provvedimento di archiviazione delle indagini per quel caso di omessa indicazione di un porto di sbarco sicuro, sembra adombrare comportamenti censurabili da parte della ONG, che avrebbe agito “in autonomia”, con una connotazione di possibile illiceità che cinque mesi fa non aveva rilevato. Posiamo prevedere cosa succederà quando il comandante della Sea Watch 3 sarà costretto ad entrare nelle acque territoriali italiane, una selva di denunce ed il sequestro, poi la confisca della nave. Ma la vita umana vale di più.
Lo scorso gennaio il governo italiano ha spacciato la procedura a Strasburgo come una iniziativa per dimostrare che la competenza esclusiva nel ricevere le persone sbarcate dalla Sea Watch fosse del governo olandese, linea difensiva che è stata sconfitta, nel senso che la Corte europea, nei limiti della sua decisione interinale, non aveva accolto quanto proposto da Palazzo Chigi. Si era cercato allora di accreditare l’idea che fosse stato il governo ad adire la Corte di Strasburgo per ottenere il riconoscimento della giurisdizione dell’Olanda sui migranti a bordo della Sea Watch, quando invece era proprio lo stesso governo italiano chiamato in causa dal comandante e dal capomissione della nave, davanti ai giudici europei, per chiedere misure urgenti contro la chiusura dei porti e per le tante omissioni di atti dovuti, anche con riferimento a numerosi minori stranieri non accompagnati.
Non sembra possibile ritenere ancora oggi che l’Olanda o Malta abbiano una qualche giurisdizione sui naufraghi a bordo della Sea Watch 3. E’ nota la posizione di Malta, che non ha firmato gli emendamenti apportati nel 2004 alle Convenzioni SAR e Solas, e dunque non garantisce porti di sbarco sicuri ai naufraghi soccorsi all’interno della sua vastissima zona SAR. Si doveva quindi rispettare la posizione di diverse agenzie delle Nazioni Unite e della Commissione Europea, che escludono che la Libia, o qualsiasi entità territoriale nella quale ormai risulta frammentata, possa garantire un “place of safety“.
“Io sono responsabile delle 42 persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. Quanti altri soprusi devono sopportare? La loro vita viene prima di qualsiasi gioco politico o incriminazione".
La nostra Comandante su @repubblica.
Siamo con lei qualsiasi cosa accada. pic.twitter.com/ctiKiLlfpZ
— Sea-Watch Italy (@SeaWatchItaly) 25 giugno 2019
2. Quanto deciso adesso dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo va in contrasto con la chiara posizione rappresentata appena pochi giorni fa dal Commissario per i diritti umani dello stesso Consiglio d’Europa. Dopo l’entrata in vigore, in Italia, del c.d. decreto sicurezza-bis, e dall’immediata adozione del primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1- ter T.U. imm. il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, organo indipendente attualmente rappresentato dalla bosniaca Dunja Mijatović, aveva emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean (ZIRULIA,DPC).
“Nel documento si sottolinea che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. Indicazione queste che risultano in netto contrasto con le più recenti Direttive/diffide adottate dal ministro dell’interno italiano nei confronti delle poche ONG ancora operative nel Mediterraneo centrale, malgrado una raffica di denunce e di sequestri.”
Adesso la decisione interlocutoria della Corte Europea dei diritti dell’Uomo si limita a richiedere alle autorità italiane l’assistenza medica essenziale ma esclude l’obbligo di fornire il porto di sbarco perché la Sea Watch 3 si troverebbe fuori dalla giurisdizione italiana. Ma allora sotto qual giurisdizione si ritrovano le persone a bordo della nave, naufraghi ed equipaggio, forse sotto quella delle autorità di Tripoli nella cui zona SAR (ricerca e salvataggio) si è verificato il soccorso ?
Si ricorda quanto affermato nel 2012 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi,“… gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4”. Tale articolo stabilisce che “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate” (§ 159)
Secondo l’UNHCR, ”in mare non è possibile una valutazione formale dello status di rifugiato o di richiedente asilo (in virtù del Protocollo di Palermo del 2000 contro la tratta di migranti; del Reg. EU 2014/656 per le operazioni Frontex; del d.lgs 286/’98 – T.U. immigrazione e del Decreto Ministeriale 14 luglio 2003). Tutte le imbarcazioni coinvolte in operazioni SAR hanno come priorità il soccorso e il trasporto nel più breve tempo possibile in un “luogo sicuro” dei migranti raccolti in mare. Le azioni di soccorso prescindono dunque dallo status giuridico delle persone. Tutte le imbarcazioni che partono dalla Libia in condizioni di sovraccarico e senza dotazioni di sicurezza si trovano in una situazione di distress e dunque vanno soccorse immediatamente, senza attendere trattative tra stati o l’arrivo di motovedette libiche che neppure garantiscono la conclusione dell’operazione SAR in un porto sicuro.
In precedenza, la portavoce della Commissione Europea Nathasha Berhaud, ancora prima della denuncia di un gruppo di giuristi al Tribunale penale internazionale, aveva escluso che la Libia, nelle sue diverse articolazioni territoriali, potesse essere considerata come un luogo sicuro di sbarco. Che la Libia non garantisca porti sicuri di sbarco lo afferma anche una recente sentenza del Tribunale di Trapani, che va attentamente considerata per cogliere la illegittimità degli ordini impartiti dal ministero dell’interno alle ONG, ed i conseguenti divieti di ingresso.
Una dimostrazione da parte della Corte Europea , il rifiuto di ordinare al governo italiano lo sbarco dei naufraghi della Sea Watch 3, e non è la prima, della capacità dei governi di condizionare le decisioni dei giudici di Strasburgo quando è in gioco la politica delle frontiere e si tratta di ammettere persone richiedenti asilo in territorio europeo. Del resto basta pensare ai meccanismi di nomina dei giudici, ormai di nomina governativa, anche con riferimento al caso italiano, per cogliere come l’indipendenza rispetto ai dettati dei governi sia ormai un ricordo lontano. Scorrendo la giurisprudenza più recente della Corte di Strasburgo, dal respingimento dei ricorsi dei migranti intrappolati in Grecia, fino allo svuotamento di importanti sentenze che avevano sanzionato respingimenti collettivi e detenzione arbitraria, la Corte dimostra una pericolosa flessione che ne rende sempre più evanescente il potere di controllo nei confronti delle scelte dei governi.
Il rifiuto, aprioristico e indistinto, di un governo, peggio di un singolo ministro, di far approdare la nave in un place of safety in Italia comporta l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo, e viola dunque il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 4 alla CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. L’invito a fare rotta verso un altro stato (ad esempio Malta o la Tunisia), rivolto ad una nave che ha effettuato un soccorso in acque internazionali e che si trova all’interno della zona contigua alle acque territoriali di un paese, quindi già sottoposta ad una giurisdizione nazionale, viola il diritto internazionale e priva le persone dei diritti di chiedere asilo e di fare valere una difesa effettiva, sanciti dagli articoli 10 e 24 della Costituzione italiana. Lo scorso gennaio la Tunisia ha rifiutato espressamente un porto di sbarco sicuro proprio in occasione di una operazione di ricerca e salvataggio condotta da Sea Watch 3.
Dopo il respingimento della richiesta di misure cautelari, il ricorso presentato dai legali della Sea Watch 3 sarà esaminato nel merito, con i tempi, misurabili in anni, che i giudizi della Corte ormai richiedono. Troppo per garantire una tutela effettiva ai naufraghi sequestrati per ordine del ministro dell’interno a bordo di una nave alla quale non si vuole assegnare un porto sicuro di sbarco.
Questo è il tracciato percorso negli ultimi giorni dalla #SeaWatch.
Disegna il confine tra acque territoriali italiane e quelle internazionali. Lo vedete?
Lo stanno percorrendo forzosamente 42 persone che l'Europa, continente di 500 milioni di abitanti, non vuole.
Quarantadue. pic.twitter.com/ePXoib3xwH
— Sea-Watch Italy (@SeaWatchItaly) 23 giugno 2019
3. Le motivazioni addotte dalla Corte di Strasburgo per respingere le misure cautelari ( ordine di sbarco in un porto sicuro) richieste dal team legale di Sea Watch sono in contrasto con la precedente giurisprudenza della Corte e con quanto rappresentato negli ultimi mesi dall’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’UNHCR a livello internazionale e dalla sua rappresentanza italiana, dagli avvocati internazionali che hanno denunciato l’Italia e l’Unione Europea alla Corte penale internazionale.
Non è vero che la Sea Watch 3 in questi 12 giorni di blocco al largo delle coste di Lampedusa, in quella che è definita come “zona contigua” alle acque territoriali, si sia trovata o si trovi ancora fuori dalla giurisdizione italiana, e dunque europea. Se così fosse stato peraltro, la Corte avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il ricorso. Se la Guardia di finanza notifica un provvedimento di diffida ad entrare nelle acque territoriali italiane ad una imbarcazione privata carica di naufraghi, che si trova già nella zona contigua (12-24 miglia dalla costa) non viene dunque esclusa la giurisdizione italiana e in capo allo stato costiero si conferma la responsabilità di indicare un porto sicuro di sbarco. In base all’art. 10 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, i naufraghi potranno essere espulsi o respinti soltanto una volta condotti a terra, con le procedure (Hotspot) previste dall’art. 10 ter dello stesso Testo Unico, sempre che non siano richiedenti protezione o ricorrano altre cause di inespellibilità. Non è del resto possibile che le regole internazionali sui soccorsi in mare e sul diritto di asilo vengano applicate in modo diverso a seconda della bandiera della nave soccorritrice, o della sua appartenenza ad una Organizzazione non governativa. Non è neppure possibile che ad ogni evento di soccorso in acque internazionali si apra una contrattazione politica con altri paesi europei, per garantire un luogo sicuro di sbarco o un trasferimento verso paesi diversi dallo stato costiero.
L’Olanda aveva spiegato già cinque mesi fa, in una dichiarazione inviata all’Adnkronos, il suo rifiuto, dicendosi disposta “a mostrare solidarietà” solo se si raggiunge una “soluzione strutturale” che consenta “in seguito allo sbarco” di “rifiutare e rispedire indietro immediatamente dopo l’arrivo alla frontiera esterna europea” i migranti che “non hanno diritto alla protezione internazionale”. Cosi il governo olandese, spiegava il suo “no” “alla richiesta italiana di prendere in carico i migranti” che si trovavano a bordo della Sea Watch, che batte bandiera olandese. “I Paesi Bassi sono a favore di una soluzione strutturale tramite la quale, immediatamente in seguito allo sbarco, venga fatta distinzione tra coloro i quali hanno diritto alla protezione internazionale e coloro che non ne hanno diritto – proseguiva la dichiarazione – Solo nel caso in cui una tale soluzione strutturale sia effettivamente applicata, i Paesi bassi sono disposti a mostrare solidarietà e contribuire allo sbarco e, per gli aventi diritto alla protezione, al ricollocamento”. Nella dichiarazione si ribadiva poi che il governo dell’Aja non riteneva di avere responsabilità nei confronti della Sea Watch: “I Paesi Bassi, in quanto Stato di bandiera, non sono obbligati” a prendere parte a quelle che vengono definite “misure ad hoc con riguardo allo sbarco” a cui l’Aja si rifiuta comunque di partecipare in assenza di “una concreta prospettiva” della soluzione strutturale auspicata. “E’ compito del capitano della Sea Watch 3 trovare un porto sicuro nelle vicinanze per sbarcare i 47 migranti da lui presi a bordo”, concludeva la nota olandese.
L’intero sistema dei soccorsi in mare non potrebbe del resto funzionare se si dovesse riconoscere il diritto dello stato costiero di “scaricare” sullo stato di bandiera, magari dall’altra parte del globo, la responsabilità per la indicazione del luogo di sbarco. Anche per l’incertezza derivante da siffatti criteri di responsabilità, quando l’armatore sia di un paese diverso da quello di bandiera della nave. Nel caso Women on Waves c. Portogallo, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 derivante dal divieto di accesso al mare territoriale imposto dalle autorità portoghesi alla nave olandese Borndiep, ritenendo (sia pure) implicitamente che tale divieto costituisse un esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione (§ 22 della sentenza del 3 febbraio 2009).
L’inserimento delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, alla luce del diritto umanitario, all’interno dei Regolamenti europei n.656 del 2014 e n. 1624 del 2016, relativi all’agenzia Frontex ed alla nuova Guardia costiera europea, accrescono il carattere vincolante degli obblighi di soccorso a carico degli stati ed aprono la possibilità di una serie di ricorsi in via pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, se non all’intervento della Commissione che potrebbe aprire una procedura di infrazione.
La Corte ritiene che le condizioni a bordo non costituiscano un danno imminente e irreparabile all'incolumità dei naufraghi e chiede però all'Italia di prestare il necessario supporto alla nave.
Resta la responsabilità del Comandante di portare in salvo i naufraghi.
— Sea-Watch Italy (@SeaWatchItaly) 25 giugno 2019
4. La partita tra la vita e la morte, alla vigilia di un estate di abbandono in mare e di stragi si gioca adesso in Italia, qui e subito. Innanzitutto sul terreno della disobbedienza civile, che diventa obbedienza costituzionale, come si è già sperimentato con il primo decreto sicurezza (Legge n.132/2018). Obbedienza costituzionale significherà anche battersi nei territori e nelle aule di giustizia perché i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita ed alla protezione, riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, trovino un riconoscimento effettivo.
Secondo La Stampa ”sul caso Sea Watch, dopo la richiesta d’intervento alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, si aggiunge anche un esposto alla procura di Roma da parte del presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che esprime la sua preoccupazione per il deteriorarsi della situazione venuta a crearsi nelle acque internazionali ma pur sempre al confine della nostra frontiera italiana. Per questo, il Garante chiede nell’esposto, di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue autorità competenti non stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave e se ciò non configura fattispecie penalmente rilevanti.
Il Garante chiarisce che “non può né intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza. Tuttavia, è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale. In particolare, ribadisce che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati. Ritiene inoltre che la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave”. Il Garante smonta poi la decisione della Corte europea basata sulla pretesa mancanza di giurisdizione dell’Italia. Infatti, “L’esercizio della giurisdizione italiana sull’imbarcazione sembra inoltre confermato dalla valutazione delle vulnerabilità delle persone a bordo a cui è stato permesso lo sbarco: non può essere però questa la sola via d’uscita dalla situazione presente che, a parere del Garante, sta degenerando”.
Il garante ribadisce così come “nel caso della Sea Watch 3, sia proprio il pur legittimo esercizio della sovranità da parte del nostro Paese a determinare giurisdizione e responsabilità nei confronti delle persone, incluso almeno un minore non accompagnato, bloccate in condizioni sempre più gravi al confine delle sue acque. Del resto, l’esercizio stesso del divieto e la sua attuazione implicano che il Paese garantisca l’effettività dei diritti derivanti dagli obblighi internazionali alle persone bloccate: di non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti; di non essere rinviati in Paesi dove ciò possa avvenire; di avere la possibilità di ricorrere contro l’attuale situazione di fatto di non libertà davanti all’autorità giudiziaria; di richiedere protezione internazionale”.
Dobbiamo difendere lo stato di diritto e dimostrare anche ai giudici di Strasburgo che il governo italiano non si può sottrarre alla giurisdizione, né in mare, né in quegli spazi al di fuori del diritto che sono i centri Hotspot ed i Centri per i rimpatri (CPR). Ovunque ci si dovrà battere contro la proliferazione di prassi operative e di strutture che violano le garanzie previste dalla Costituzione e dalle Convenzioni internazionali in materia di libertà personale.
Occorrerà poi stringersi accanto a tutti gli operatori umanitari ed ai cittadini solidali che saranno perseguiti con processi nei quali si vuole soltanto criminalizzare la solidarietà. Si deve battere la rimozione e la disinformazione che spesso diventa calunnia. Come stiamo sperimentando dal 2017 per il processo scaturito a Trapani, dopo il sequestro della nave umanitaria Iuventa, a Lampedusa, e come siamo costretti a vedere ripetersi nei procedimenti penali ancora aperti contro operatori e comandanti di navi delle ONG, la Open Arms, a Ragusa, la Mare Jonio di Mediterranea ad Agrigento, la Sea Watch ancora ad Agrigento, la Aquarius a Catania.
Nel caso Cap Anamur la causa di giustificazione indicata dal tribunale di Agrigento quale elemento fondante la sentenza di assoluzione, veniva identificata nell’art. 51, comma 1 c.p. (nell’“adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale”). Secondo i giudici agrigentini, l’operatività della scriminante in oggetto muove dal riconoscimento del dato oggettivo del soccorso compiuto ed è fondata, sotto il profilo normativo, da una lettura costituzionalmente orientata della locuzione “dovere imposto da una norma giuridica” della norma, trattandosi non solo di precetti codificati nella normativa nazionale, ma anche in quella internazionale, cui il nostro ordinamento è tenuto a conformarsi proprio in base al comma 1 dell’art. 10 della Costituzione (particolare valore assumono, anche i commi successivi della norma in questione, ove si statuisce che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali” e che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento il 7 ottobre 2009 relativa al caso Cap Anamur, il collegio giudicante ha ritenuto di specificare che l’onere di fornire un porto di sbarco sicuro (place of safety) non si riferisce unicamente alle incombenze legate alla somministrazione del vitto e dell’assistenza medica, ma, soprattutto, va rapportato alla necessità di garantire ai naufraghi “il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma”.
La Corte di Cassazione, nell’affermare la sussistenza della giurisdizione italiana nei confronti di trafficanti che avevano abbandonato i migranti su imbarcazioni di fortuna in acque internazionali, ha ritenuto che la condotta dei soccorritori dovesse andare esente da responsabilità penale per la copertura della scriminante dello stato di necessità, tanto da ricondurla alla figura dell’autore mediato, di cui all’art. 48 cp. Secondo i giudici di legittimità la menzionata condotta è conseguente allo stato di pericolo volontariamente provocato dai trafficanti, al punto dall’essere legata, senza soluzione di continuità, alle azioni criminose di questi ultimi poste in essere in ambito extraterritoriale (così Cass., sez. 1, sent. 18 maggio 2015 n. 20503, Rv. 263670). Una volta che i naufraghi abbiano varcato il limite delle acque territoriali, si potrà anche applicare l’esimente dell’art. 12 comma 2 del T.U. n.286/98. A partire da questo momento, infatti, non vi è più ragione per non ritenere operante la scriminante speciale di avere compiuto attività di soccorso e assistenza umanitaria nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato.
Malgrado diverse archiviazioni, le attività di polizia dirette dal ministero dell’interno, ad ogni sbarco di naufraghi in un porto italiano, confezionano “notizie di reato”, parificando lo sbarco di naufraghi al trasporto di “clandestini”, che poi innescano l’esercizio dell’azione penale. Un meccanismo ormai collaudato, che il Viminale usa con grande impatto per dimostrare una capacità deterrente, non certo dell’immigrazione clandestina, che comunque prolifera attraverso altri canali, bensì del soccorso in mare operato da navi private che agiscono per fini umanitari. Rimane da verificare che impatto hanno su questi procedimenti gli agenti sotto copertura e le intercettazioni telefoniche raccolte spesso al di fuori dei codici di procedura. Di sicuro saremo presenti nei procedimenti che si svolgeranno nei tribunali. Anche per impedire che si continui a mistificare il ruolo degli operatori umanitari accusandoli di collusione con i trafficanti.
Se non c’è un giudice a Strasburgo ci saranno pure giudici in Italia che non si piegheranno alle minacce del ministro dell’interno. Dimostreremo ai giudici della Corte europea che la Sea Watch 3, ricade già adesso sotto la giurisdizione italiana, e dunque europea, quella giurisdizione che loro hanno voluto negare per non imporre lo sbarco a Salvini.
Sarà adesso decisiva la partita che si giocherà in Parlamento per l’approvazione del decreto sicurezza bis (D.L. n.53 del 2019). Vedremo chi sarà capace di fare opposizione, a partire dalla denuncia degli accordi infami con la Libia. Un decreto con il quale si tenta di dare un fondamento legislativo ai provvedimenti amministrativi del ministro dell’interno che diffida le ONG che hanno operato soccorsi in acque internazionali, minacciandole che in caso di ingresso nelle acque territoriali saranno sottoposte a gravi sanzioni amministrative e penali, fino alla confisca delle imbarcazioni.