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La Libia non è un inferno

Breve cronaca di un equivoco

Photo credit: Patrizia Cortellessa (Roma, 16 dicembre 2017 - Fight/Right - Diritti senza confini)

Quali parole per quale Libia?

Gli sguardi e i racconti in tema di Libia restituiscono, mai come in questa fase, una rappresentazione tendenzialmente omogenea della situazione in cui versa il paese. L’immagine di un territorio funestato da indicibili violenze tende a consolidarsi nell’immaginario pubblico. Due momenti scandiscono la formale presa di coscienza collettiva sulle condizioni della Libia contemporanea: la diffusione del noto documentario della CNN e la pubblicazione del report di Amnesty International.

Non che finora non si avesse evidenza di ciò che da anni accade a chi dalla Libia è in fuga. Al contrario, da un considerevole numero di anni le testimonianze delle e dei migranti convergono nel definire il paese come un terribile scenario in cui privazioni, violenze e crudeltà si inseguono e si intrecciano, senza soluzione di continuità.

La pubblicazione dei due documenti, però, ha segnato uno spartiacque nel dibattito pubblico e nella percezione della società civile: allo stato attuale, nessuno può deliberatamente ignorare quali sono le condizioni di chi vive o transita per la Libia. Come viene rappresentata, nel discorso pubblico, la situazione attuale del paese nordafricano? C’è una metafora che negli ultimi mesi ha assunto, per diffusione e rilevanza, un ruolo centrale. È facilmente rintracciabile nei media mainstream, nei documenti di organizzazioni governative e non, e anche nelle dichiarazioni di rappresentanti politici e istituzionali: la Libia è un inferno. Una rapida ricerca delle parole “Libia” e “inferno” su Google è sufficiente per avere un primo feedback in tal senso.

A seconda delle esigenze politiche di chi la pronuncia, l’espressione può assumere varie sfumature: a volte viene posto l’accento sulla necessità di cooperare con le autorità libiche per favorire il superamento dell’inferno, altre sull’opportunità di aiutare chi fugge da quel paese infernale. In ogni caso, l’immagine sembra all’apparenza la più congrua traduzione, in forma discorsiva e facilmente comprensibile, dei due documenti citati. La tesi che si propone in questa sede è che la metafora “la Libia è un inferno” nasconde alcune insidie. Più che il naturale richiamo a uno degli immaginari più brutali che abbiamo a disposizione – l’inferno – la metafora sembra implicitamente aprire la strada ad alcuni schemi narrativi che, a loro volta, se scomposti e analizzati, rivelano una specifica visione del mondo e della politica.

L’inferno come dimensione prepolitica e astorica

Affermare che la Libia è un inferno contribuisce, certo, a sottolineare la gravità della situazione in cui versa il paese. Ma chi potrebbe deliberatamente negarlo, a questo punto? Al contrario, il richiamo all’inferno nulla dice sulle origini di tale condizione. Com’è noto, secondo Dante l’inferno ha natura divina: è la caduta di Lucifero, per mano di Dio, dal Paradiso alla Terra, che ha dato luogo alla cavità dell’inferno. Una genealogica dai connotati temporali e storici irrimediabilmente remoti che, se implicitamente sovrapposta alla Libia contemporanea, restituisce l’idea di un elemento dato, piuttosto che del prodotto di precise scelte e strategie geopolitiche.

Che utilizzi l’immagine dell’inferno anche chi – forze politiche, organizzazioni internazionali, istituzioni europee e nazionali, governi, alcune ONG – ha contribuito, a vario titolo, a definirne il profilo attuale, appare per lo meno paradossale. Da questa prima prospettiva, il richiamo all’inferno restituisce un immaginario autoderesponsabilizzante. Perché la Libia versa in queste condizioni? Qual è il processo che ha condotto alla situazione odierna? Quali le responsabilità? Quali le esigenze politiche, per esempio in relazione all’esigenza di governare i flussi, che hanno reso la Libia il terreno ideale per le più spregiudicate strategie politiche al fine di bloccare i migranti? Nella rappresentazione della Libia come un inferno non sembra esserci spazio per la storia e la politica. Al contrario, il richiamo a una categoria trascendente allontana le cause dagli effetti e naturalizza la contemporaneità.

L’inferno è sotterraneo e invisibile

L’inferno non ha a che fare con gli affari del mondo: ha una natura e una genealogia separata. Ed è invisibile. L’origine latina della parola – da inferus, sotterraneo, che si trova in basso – contribuisce a rafforzare la percezione di questa dimensione. Quali impliciti narrativi accompagnano, da questa prospettiva, il richiamo all’inferno? Anche da questo punto di vista siamo davanti a un discorso deresponsabilizzante, che segue più o meno questa traiettoria: il video della CNN e il report di Amnesty International ci ha permesso di conoscere quello che succede nell’inferno della Libia. Prima di questa evidenza, l’inferno – che è lontano, sotterraneo, invisibile, separato – non era conoscibile.

Questa prospettiva non ha evidentemente a che fare con la realtà. Esiste una mappatura 1:1 della Libia contemporanea: è il minuzioso prodotto delle testimonianze e dei discorsi pronunciati, nel corso degli anni, dalle e dai migranti. In quest’ottica, il moto di improvvisa indignazione collettiva per la scoperta della situazione attuale della Libia, se sovrapposto al clima di sostanziale indifferenza che accoglie i racconti di tantissime e tantissimi migranti, non può che irritare. Nessuna natura separata, né tanto meno una condizione di invisibilità. Esiste, e non da ora, un racconto diffuso – dettagliato, puntiforme, circostanziato, in perenne divenire – sulla Libia attuale. È da anni a disposizione di tutte e tutti: è nei ricordi, nelle ferite – simboliche e materiali – e nei desideri di chi è transitato per il paese nord africano.

In quest’ottica, il moto di indignazione ha probabilmente a che fare con l’esigenza politica, da parte della società civile e delle sue istituzioni, di un generalizzato lavaggio di coscienza. È bene riaffermarlo: l’inferno era – ed è – in superficie. Bisogna essere, in quest’ottica, doppiamente grati, alla luce dei recenti eventi, a chi, nel corso degli anni, a vario titolo e da prospettive diverse, ha raccolto testimonianze, intrecciato discorsi, dando una dimensione politica al dolore e producendo un imprescindibile e variegato archivio collettivo delle migrazioni contemporanee.

L’inferno è per i peccatori

La voce “inferno” su Wikipedia riferisce che:
Inferno è il termine con il quale si è soliti indicare il luogo di punizione e di disperazione che, secondo molte religioni, attende, dopo la morte, le anime degli uomini che hanno scelto in vita di compiere il male.

Da questa prospettiva, il richiamo all’inferno attribuisce un’indicibile colpa in capo a chi vi si trova. Anche qui siamo evidentemente nel campo dell’implicito. Bisogna ugualmente farci i conti: l’utilizzo di specifici universi simbolici produce effetti anche e forse soprattutto quando chi li recepisce non ne ha la percezione.

In più, per ciò che concerne il concatenamento simbolico inferno/colpa/espiazione, sembra opportuno riflettere su una circostanza ulteriore. Esiste un articolato e diffusissimo sistema di pensiero secondo il quale, in definitiva, non sia legittimo migrare. Assumendo questa prospettiva a volte esplicitata, il più delle volte nascosta sottotraccia ma ugualmente operante – il richiamo all’inferno, anche senza un riferimento esplicito ai dannati e alle loro colpe – contribuisce implicitamente ad affermare l’idea secondo la quale, in buona sostanza, chi si trova all’inferno ha da espiare uno specifico peccato: aver ritenuto – per bisogno e/o desiderio – direttamente esigibile il diritto a migrare, a prescindere dagli ostacoli materiali e giuridici e dall’ostilità diffusa.

Le metafore, le immagini, le parole non sono mai innocenti. Può essere doppiamente utile, come attiviste e attivisti, interrogarsi sulla dimensione politica delle rappresentazioni che attraversano il dibattito pubblico. È necessario e possibile porsi le opportune domande, in ultima analisi, anche sugli impliciti narrativi che orientano il nostro sentire e il nostro agire. Non è una questione lontana e astratta. Non è in gioco soltanto l’affermazione di insidiose metafore nel dibattito pubblico mainstream. È in fase di perenne ridefinizione anche il nostro immaginario: una dimensione pubblica e collettiva di analisi e di discussione sull’efficacia, l’opportunità politica e finanche l’eticità delle immagini e degli universi simbolici e politici che anche noi agitiamo può essere un’occasione per ripensare la nostra azione politica e la qualità delle relazioni che instauriamo.

Francesco Ferri

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.