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La partenza di Idrissa

Storia romanzata di un saluto ai tanti Idrissa, a Mu’tazz, che ha ancora Aleppo negli occhi

Photo credit: Keystone

Ho visto Idrissa l’ultima volta una settimana fa, al tavolo di un bar vicino alla stazione. Quasi non riuscivo a parlare, mi si faceva la gola stretta per quella separazione imminente, nell’aria da sempre.

Idrissa era pronto, lo aveva già detto, sentiva che era arrivato il momento e aveva fatto la sua scelta. Dov’era adesso era stato bene, glielo vedevo nel viso che si illuminava a parlare di “casa” e dei compagni ai quali s’era affezionato; ma aveva preso quel che si poteva, non c’era motivo di attendere oltre, nemmeno di avere qualche altro soldo in tasca, semmai sarebbe arrivato. Il permesso di soggiorno lo aveva ottenuto, e questa era già una conquista enorme, la garanzia di sonni tranquilli e qualche sogno in più. Instancabili girovaghi, questi ragazzi.

Oggi sono qui, domani su un autobus o un treno a macinare chilometri da una parte all’altra d’Europa. Uno zaino, e via, non hanno nulla da portarsi dietro. Chissà se è per questo che le loro partenze sembrano più facili, fatte a cuor leggero, senza pianificare troppo, senza temere di lasciarsi dietro molto. Perciò a quel tavolo, dove siamo andati a prendere un caffè, Idrissa era tranquillo, per lui era solo un’altra tappa. C’era calma nella consapevolezza di dover andare via, quasi una sapienza che gli faceva dire con gli occhi, non importa, qualsiasi cosa accade troverò il modo di cavarmela.

Così me lo ricordo a scuola, calmo e dignitoso sulla sedia, la mano stretta e intenta a tenere una penna troppo minuscola per le dita grandi. E’ un ragazzone alto e robusto Idrissa, il corpo disegnato con lo scalpello. “Lo sport”, diceva, “è buono, mi fa sentire bene. Stare senza fare niente, questo non mi piace”. Dentro il centro che lo ospitava ne aveva passato di tempo, giorni tutti uguali, senza che succedesse mai assolutamente niente.

Tra i suoi compagni c’era chi s’era lasciato andare, si alzava dal letto solo per consumare i pasti e trascorreva gran parte della giornata a dormire. “Tanto cosa cambia”, gli avevano detto, “chi te lo fa fare, non sai nemmeno se qui ci puoi restare”. Altri come lui, invece, resistevano, nonostante i tanti pensieri che a volte, mi diceva, gli rubavano la presenza.

Mettevano la sveglia presto la mattina, doccia prima di uscire e due ore sui mezzi pubblici per raggiungere la scuola. Sentivano che serviva a mantenerli vivi. “Vorrei tanto imparare a leggere e a scrivere, ma ho la testa chiusa”, gli aveva detto il suo amico, e lui da quel giorno gli si sedeva sempre affianco per aiutarlo e regalargli le sue conquiste.

Maledetta lingua, quanto è difficile, capisci giusto un po’, quel che serve per arrangiarsi, ma seguire un discorso intero, come si fa. Metti insieme una parola presa da una parte, un paio di frasi dall’altra, gli amici che dicono una cosa sentita da chissà chi; per fortuna qualche volta c’è l’operatore bravo, quello che si ferma a spiegarti le cose.

Alla fine finisce sempre che ti perdi le parole importanti, vorresti chiedere a qualcuno di ripeterle un’altra volta ma poi rinunci, tanto, hanno detto, che c’è solo da aspettare. E magari, dopo la lunga attesa, arriva il solito negativo contro cui persino l’avvocato non sa che inventarsi.

Nonostante tutto, Idrissa continuava a frequentare la scuola. Lo faceva per sua spontanea volontà, con la stessa fiducia che aveva ieri sera mentre mi parlava del treno che partiva il giorno successivo, sicuro che da qualche parte lo avrebbe portato. La verità era che alle persone voleva bene.

Sapeva già che di quelli che incontrava qualcuno lo avrebbe deluso, come gli era capitato in passato, ma allo stesso tempo era certo che non sarebbero stati tutti così. “C’è sempre qualcuno bravo che ti dà una mano, io me la cavo”, mi diceva, e quelle sue spalle aperte e vive potevano solo confermare una certa confidenza, forse un pizzico di incoscienza temeraria verso il mondo. Spalle inconfondibili.

Ricordo ancora lo sguardo della mia amica quando lo vide per la prima volta, sbucare da dietro l’angolo in canotta bianca sulla pelle nerissima e scolpita, presa alla sprovvista anche lei dallo stupore felice che provocano, senza spiegazione, le figure armoniose e belle. Lui, però, sembrava non essere consapevole di quel suo aspetto che non passava certo inosservato, né fare caso ai muscoli pieni che gli impostavano il petto. Gli bastava sapere di averli lì, per i tempi duri, tenaci come lo era stato lui nell’arrivare fin qui.

Così se ne stava a scuola, con la posa orgogliosa e silenziosamente caparbia, la schiena dritta a tradire quella gioia di vivere che basta averne memoria una volta nella vita, perché lasci la sua traccia. E non la nascondeva mica tanto facilmente, non poteva farlo; d’altronde scoppiava di salute, nessuno gli avrebbe creduto se avesse raccontato ciò che, dopo quella memoria lontana, aveva passato. Ed era sempre il suo aspetto forte e imponente che gli tirava addosso le invidie bonarie dei suoi compagni, e le parole, avvelenate, della gente del posto, di qualche giovane uomo che invece di memorie come le sue, nella vita, probabilmente non ne aveva mai avute.

Anche l’altra sera, quando sono andata a salutarlo, sotto il giaccone pesante dell’inverno si intravedeva la figura solida, le linee disegnate di quel corpo di ragazzo colmo di fiducia nella sua schiena dritta. “Parto”, mi ha detto. “Vado a Milano, c’è un mio amico, e dopo vediamo”.

Non gli scorgevo la preoccupazione che sarebbe stata lecita, in chi non ha molto tra le mani se non notti lunghe e forse sogni. Le cose si sarebbero sistemate, sembrava averne la certezza, anche se non osava dirlo ad alta voce. Allora gli ho parlato di Milano, in mente avevo quei momenti spensierati che si fanno dolci di sensazioni quando vai in giro con il naso all’insù e, senza pensieri e pretese, puoi soffermarti sulla la vista dei Navigli per dimenticare per un po’ i palazzi grigi, e bere una birra in attesa di nuove sere d’estate. Non so se Idrissa l’avrebbe mai vista così, alla maniera spensierata di chi se ne sta a passeggio e può permettersi di vagare senza meta.

Non so nemmeno se l’aveva mai pensato possibile, per sé, camminare e basta per il piacere di farlo; da quando era arrivato qui, nulla gli era stato dato che non fosse per un fine utile, per uno scopo pratico. Tutto il resto non era per lui, né per gli altri ragazzi, già è tanto che hanno un tetto e un pasto caldo, e persino il cellulare e i vesti, non li vedete, all’ultima moda, chissà dove prendono i soldi. Li trattano meglio di noi Italiani, cosa vogliono di più, andare in giro a passeggio? Dovrebbero solo lavorare.

E questo Idrissa lo aveva sentito mille volte nei discorsi della gente sul tram, mentre tornava a casa, e si era convito che era meglio così, che non si facesse troppo vedere in giro a prendere un po’ d’aria senza motivo. Usciva per andare a correre, questo non glielo poteva negare nessuno, ma era un’altra cosa, dava l’idea che c’era una fatica dietro. Passeggiare con la tranquillità negli occhi no, questo proprio no. C’è da dire che l’avevano abituato nella stessa maniera anche da piccolo, chissà forse preventivando che un giorno gli sarebbe servito pensare alle cose concrete, che di sogni e speranze non si campa. Allora lui le aveva messe lì, le speranze, tutte nel vigore di quelle braccia forti che promettevano di stringere con dolcezza.

Abbiamo parlato di Milano, mentre il caffè andava via veloce, anche la tazzina sembrava più piccola tra le mani del gigante. Era contento, qualcosa di nuovo ne sarebbe sicuramente accaduto andando via, se non altro avrebbe visto facce diverse, luoghi sconosciuti, autobus e treni di un altro colore. E avrebbe forse creduto che davvero stava cambiando qualche cosa. E’ sempre un colpo al cuore salutare i ragazzi, una felicità vederli andare, con la certezza, per loro, che quando vorranno ti troveranno ancora qui.

L’altro ieri mi è arrivato un messaggio sul telefono. La prima parte era in italiano, poi la voce cambiava nel finale, dove c’erano i saluti, parlando quell’altra lingua che pure è la sua, e perciò la pronuncia era più morbida, si sentiva una certa tenerezza. Suonava dolcissimo il francese di quel ragazzone. Colorato delle mani grandi, del timbro di voce basso, di quel modo di parlare forte, come un tamburo, che sembrano avere le parlate africane al nostro orecchio: poche frasi di francese per una dichiarazione di speranza, per la memoria di quella lontana gioia di vivere che andava a inseguire.

Idrissa alla fine non si è fermato a Milano. La sera prima di partire il suo amico che doveva attenderlo gli ha dato buca. Allora ha tirato dritto, è sceso dall’autobus solo molto più a sud. Un altro amico, questa volta uno fidato, l’ha accolto in casa sua. “Sono a Siviglia”, mi ha detto, “qui le persone sono molto gentili”. Me lo sono figurato per un attimo finalmente a passeggio, tra le vie del centro, “è bellissima, “sono certa che ti piacerà, ti piacerà tanto. E poi è piena di alberi di arancio. Il loro buon profumo ti accompagna ovunque”. E lui ha risposto, con la dolcezza di sempre, solo “merci”.

E so
che tutto ciò che in questo mondo
c’è di grande
e di bello,
tutto ciò che sarà fatto dagli uomini,
tutta la verità futura
e la grandezza,
che io aspetto con tanta ansia nel cuore,
tutto questo c’è nei tuoi occhi.. 1

…amico mio, stanotte, alle porte di Siviglia…

Sara Forcella

  1. Nazim Hikmet, Alle porte di Madrid

Sara Forcella

PhD in Civiltà dell'Asia e dell'Africa, è arabista, mediatrice culturale ed insegnante di italiano L2. E' inoltre presidente di Fuori Passo ETS, associazione che si occupa di mediazione, orientamento, servizi e formazione per persone con background migratorio.