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«La search and rescue area è una zona di guerra»

“Iuventa”, la nave della ong tedesca Jugend Rettet, approda nei cinema italiani: intervista al regista Michele Cinque

Incontro Michele di pomeriggio, nonostante l’atmosfera amena ha la fronte corrucciata. Mentre chiacchieriamo, cerca di ricordare i momenti più faticosi del suo lungo viaggio inseguendo il gruppo di ragazzi tedeschi, una nave, il suo equipaggio, e il loro sogno collettivo. Fin dal primo momento in cui ha sentito parlare della Iuventa è stato chiaro per lui che quella era una storia da trasformare in un film.
La sua perseveranza lo ho portato a farsi accettare a bordo per la primissima missione della Ong nel Mar Mediterraneo. Da allora ha passato due anni tra treni, aerei e mezzi di fortuna, sempre con la telecamera in spalla, pronto a ripartire quando riceveva notizie che qualcosa stava accadendo. Ora mi confida che finalmente, almeno per un periodo, ha posato la telecamera: era tanto parte di lui che in molti si stupiscono nel vederlo senza.
Il film è finito: esce oggi ufficialmente nelle sale italiane.
Riposiamo un po’ impazienti nel suo giardino, poche ore ci separano dalla proiezione al Cinema Farnese a Campo dei Fiori, un luogo a dir poco simbolico, proprio di fronte alla statua di Giordano Bruno. Nell’attesa, tra un tiro di sigaretta e l’altro, Michele ci racconta della sua storia, dei suoi ricordi ma anche del futuro del film.

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Qual è stata l’esperienza più emozionante che hai vissuto a bordo della nave Iuventa?

Lo scontro con la morte sarebbe stata la mia prima risposta tempo fa, ma quasi banale dopo due anni di distanza. Forse è anche la risposta più ovvia. Se si vede anche solo il bollettino di bordo della prima missione di Iuventa è chiaro che è quello l’elemento più drammatico. Però il momento che mi è rimasto e mi ha colpito di più è avvenuto durante il primo giorno di salvataggi. Nessuno di noi aveva mai visto un gommone stracarico di persone in mezzo al mare prima di allora, e ci siamo trovati a soccorrerne sei nel giro di due ore. Era incredibile il numero di persone che stava su quella rotta, senza la minima idea di dove stavano andando con queste barche pericolanti, praticamente dei gommoni traballanti pieni di persone che rischiavano il naufragio.
La cosa che mi è rimasta più impressa è l’odore della paura, che è un odore che non si può spiegare. Quando centinaia di persone ammassate arrivano e pensavano di essere morte, dentro la barca c’è tutto ciò che può fare schifo che può uscire dal corpo umano, come vomito, urina, sudore. Ma allo stesso tempo c’è l’ondata di gioia. La gioia di queste persone che erano salve, che per la prima volta da quando avevano messo piede in mare avevano un posto sicuro, il ponte della Iuventa. Questa sensazione di gratitudine che arrivava insieme alla paura, ti investiva proprio come un’onda, e questa è una cosa che rimane dentro. Non la scordi più. Questo misto fra l’odore della paura e la sensazione fisica della gioia è ciò che mi ha colpito di più.

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Oltre al periodo passato a bordo della Iuventa, quale momento di questo lungo progetto ti ha appassionato di più?

Da regista vorrei dire quando il film è stato per la prima volta proiettato in Germania. Quando per la prima volta i ragazzi protagonisti hanno scoperto che il film ridava loro una giustizia che avevano perso. Quei ragazzi che si erano visti improvvisamente visti chiamare taxi del mare, scafisti e collusi, con tutto ciò che andavano a combattere. Per loro sentirsi rappresentati onestamente è stato importante. Per esempio, quando il capitano Benedict dopo la proiezione del film a Monaco ha parlato alla folla difendendo orgogliosamente le loro azioni, anche davanti a diversi parlamentari tedeschi. Mi ha poi ringraziato dicendo “questo film ci ha ridato una voce”.
Questo come documentarista, realizzare che il tuo film provoca un effetto, significa accorgersi che il tuo lavoro ha avuto un senso.

Dal punto di vista personale, invece, è stato ritrovare i ragazzi che abbiamo salvato nei centri d’accoglienza in Italia sei mesi dopo la prima missione. Alcuni di loro appaiono nel film ma ne abbiamo girati altri, come l’Hotel Colibri a Biella. Sono andato lì con César Dezfuli, il fotografo, a incontrare un ragazzo con cui era rimasto in contatto. Stavamo mostrando delle foto della Iuventa che avevamo sul cellulare quando all’improvviso succede qualcosa di inaspettato: 4 ragazzi si accorgono che erano stati salvati anche loro da quella barca. Ed è così che in un hotel in disuso e fatiscente troviamo non uno ma ben quattro degli ospiti della Iuventa.
Una sorpresa incredibile: i ragazzi si sono emozionati tantissimo. Essere capace di sentire e raccontare le loro storie personali è stato davvero importante. Sulla nave si ha poco tempo, e anche se già in mare avevamo scalfito la superficie di quei numeri – perché come numeri sono considerati quando attraversano il Mediterraneo – si ha difficoltà ad entrare in profondità. Ma quando abbiamo avuto modo di parlarci sono diventati individui, con la loro storia, i loro sogni, i loro desideri e le loro paure. Andare nei centri d’accoglienza è stato un passo importante verso la personalizzazione di queste persone che vengono troppo spesso viste e raccontate solo come numeri.

biella – 17 Gennaio 2017 from Lazy Film on Vimeo.

Il film è appena uscito nella sale italiane: cosa ci puoi raccontare dei prossimi appuntamenti?

Il percorso del film in Italia è tutto in divenire. Altre sei città mi hanno chiamato da poco e stiamo confermando le proiezioni. Saremo a Bologna, Palermo, Bolzano, Trieste, Torino. Saremo questa settimana a Milano.
Seguirò il film per le prime due settimana di tour e parteciperò ai dibattiti con estremo piacere, poichè spesso sono proprio questi confronti che ridanno davvero il senso di aver fatto tutta questa fatica. Ci tengo molto a dire che stiamo preparando un tour in Africa fra dicembre e gennaio tramite due associazioni che si occupano di diffondere la cultura cinematografica. Una è CineNomad, che porta il cinema nelle zone rurali del Burkina Faso con un metodo molto interessante: non solo proiettano film ma coinvolgono la popolazione locale registrando interviste prima del film e, dopo un montaggio in tempo record, le proiettano subito dopo il film sul grande schermo, per favorire il dibattito e far sentire i locali protagonisti dell’evento. Siamo anche in contatto con l’associazione FilmAid che organizza screening nei campi di rifugiati in Kenya, e speriamo di poter ampliare questo progetto ad altri stati africani. Perché credo sia importante andare a confrontarci anche con chi ancora sogna l’Europa, per cercare di raccontare le difficoltà di questo viaggio.

Insieme a “Iuventa” porteremo anche Jululu (premio miglior regia al Festival di Venezia nella sezione MigraArti) che con un linguaggio diverso da “Iuventa” racconta la realtà e la bellezza delle persone che popolano i ghetti dove si raccolgono i pomodori in Puglia. Un progetto se vogliamo estremamente connesso a “Iuventa” poiché racconta la storia di quello che succede dopo il soccorso, quando alcuni fra i migranti ricevono un foglio di via e quindi si ritrovano nella clandestinità, finendo per venire sfruttati dai caporali per conto delle mafie locali.

In Europa abbiamo già confermato 150 proiezioni in Germania, di cui 120 già svolte, e stiamo lavorando per portarlo a Bruxelles al Parlamento Europeo per farlo vedere ai politici, nella speranza di riportate la narrazione sulle migrazioni su un piano più veritiero e umano. Questa è secondo me la potenza del documentario: aiuta a raccontare una realtà complessa, che spesso viene semplificata per fini politici e strumentali solo all’ottenimento di voti. E’ importante parlare di questo tema in maniera più complessa, cercando di uscire dalla dicotomia buoni e cattivi.

Abbiamo anche aperto diversi festival come l’ “Human Right Film Festival” di Tirana, e andremo anche in molte università, come oltreoceano alla Columbia University. E’ un momento di grande movimento per il film, che si muove su vari piani: in Europa, in Africa e a livello internazionale tramite festival ed università. Questa mole di proiezioni avviene anche perché è l’unico film indipendente che ha raccontato le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo durante degli ultimi anni.

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Il Mediterraneo centrale è al centro delle politiche europee di gestione dei confini: qual è la tua impressione su queste operazioni?

Ho fatto un’esperienza in un momento per cui ho vissuto da vicino il cambio profondo delle narrazioni fatte dalla politica e dai media su quello che accade sul confine più mortale al mondo, il Mediterraneo Centrale. Queste narrazioni sono diventate improvvisamente semplicistiche e strumentalizzate dalla politica, generando la paura della cosiddetta “invasione” nell’opinione pubblica.
E’ successo in Italia, in Germania dove lo abbiamo visto con la crescita dell’Afd, lo abbiamo visto in Austria, e lo vediamo allo stesso modo in tutta Europa. Chiaramente, l’Italia gioca un ruolo drammatico in questa storia perché è stato il Paese che ha in qualche modo salvaguardato, forse, la coscienza umanitaria dell’Europa negli ultimi anni. La Guardia Costiera italiana ha fatto un lavoro per me straordinario: io ho incontrato i vertici della Guardia Costiera, persone che a prescindere dal loro orientamento politico hanno chiara la situazione del Mediterraneo, e hanno ben chiaro che la convenzione di Amburgo stabilisce che chiunque sia in stato di distress in mare ha diritto ad essere salvato e ad essere portato nel porto sicuro più vicino.

Questo è un tema molto caro per me, quello delle narrazioni, poiché io faccio narrazioni. E’ importante che raccontino la complessità di quella che è una zona di guerra, perché la search and rescue area è una zona di guerra, in cui ci sono le vittime e ci sono navi militari, e ci sono moltissimi attori che fanno sì che sia estremamente complesso operare in quella zona.
Penso che fare arte oggi sia politica, soprattutto quando si parla di documentari, di film che parlano della realtà, perché ristabilire una narrazione complessa diventa politica nel momento in cui la semplificazione diventa lo strumento attraverso il quale si fa leva sulla paura delle persone per creare consensi.
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“Iuventa” in Italia è distribuito da Zalab e Wanted. Per organizzare una proiezione scrivere a [email protected]
http://iuventa.film/
http://wantedcinema.eu/
http://www.zalab.org/

Redazione

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Tommaso Gandini

Racconto migranti e migrazioni dal 2016, principalmente tramite reportage multimediali. Fra i tanti, ho attraversato e narrato lo sgombero del campo di Idomeni, il confine del Brennero, gli hotspot e i campi di lavoro nel Sud Italia. Nel 2017 ero imbarcato sulla nave Iuventa proprio mentre veniva sequestrata dalla polizia italiana. Da allora mi sono occupato principalmente del caso legale e di criminalizzazione della solidarietà.