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Le porteadoras di Melilla

Marcello Bocchini, International web Post

Ogni giorno, alle sei e mezzo del mattino, i cancelli della “Gabbia” si aprono e più di 8 mila donne marocchine attraversano l’immensa recinzione di metallo trasportando sulle spalle ogni genere di merce. Provengono da isolate zone rurali del Marocco, dove il tasso di alfabetizzazione femminile non supera il 10 per cento. Sono per lo più donne sole, vedove o divorziate, con una famiglia a carico per le quali il contrabbando rappresenta l’ultima spiaggia, l’unica fonte di guadagno. Conosciute come porteadoras, sono le “donne-mulo” di Melilla.

Melilla è un’enclave spagnola situata sulla costa orientale del Marocco e, come Ceuta, era un porto franco prima che la Spagna entrasse nell’Unione Europea.

Questa strategica città portuale è passata di mano in mano nel corso della storia: in origine, una colonia fenicia conosciuta come Rusadir, Melilla è stata per secoli sotto dominio romano, venne saccheggiata e occupata dai Vandali, distrutta dai Normanni per poi passare sotto la sovranità delle dinastie che governarono il Marocco; nel 1497, infine, la Spagna occupò la città nel corso della Reconquista. Sebbene da allora i governi marocchini ne reclamino l’annessione considerandola un “territorio occupato”, per Madrid Melilla è una parte integrale del Paese iberico. Oggi, il confine terrestre, noto come El Barrio Chino, è recintato e sorvegliato da ufficiali della dogana allo scopo di contenere l’ingresso dei migranti in Europa. Quello che invece non viene bloccato è il traffico illegale di merci che avviene quotidianamente alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti.

In Marocco, da un punto di vista fiscale, tutto ciò che può essere trasportato a mano oltre il confine è considerato “bagaglio personale” ed è quindi esente da dazi doganali. Così, ogni mattina, migliaia di donne – che vivono principalmente nella provincia marocchina di Nador – attraversano El Barrio Chino con carichi fino a 80 kg di peso caricati sulla schiena. All’interno degli immensi sacchi di iuta c’è di tutto: elettrodomestici, vestiti di seconda mano, scarpe, stoffe, articoli per la casa, pacchetti di sigarette, persino alcol (vietato in Marocco) e moto rubate smontate a pezzi.

La logistica dell’operazione è semplice: i prodotti vengono impacchettati, divisi e numerati dai lavoratori spagnoli e poi distribuiti alle porteadoras in prossimità del confine. Qui, le “donne-mulo” si mettono in coda per attraversare la dogana, dove sono costrette a pagare mazzette (fino a un euro ad attraversamento) sia alla polizia marocchina sia alla Guardia Civil spagnola prima di poter passare. Dall’altro lato, oltre le recinzioni di filo spinato, una schiera di furgoncini bianchi attende i prodotti da distribuire ai commercianti dei mercati locali o da esportare in altri Paesi dell’Africa settentrionale. Le porteadoras più forti riescono a guadagnare fino a dieci euro nell’arco di una mattinata completando tre o quattro attraversamenti prima di mezzogiorno, quando le autorità richiudono i cancelli.

Secondo la Camera di commercio americana in Marocco, ogni anno vengono contrabbandate attraverso El Barrio Chino merci per un valore di oltre 1,4 miliardi di euro. Il beneficiario principale è il governo autonomo di Melilla che, secondo Vice, ricava quasi 500 milioni l’anno da questo traffico “legalizzato” di beni. Sebbene alcuni fotografi e giornalisti abbiano recentemente denunciato il caso delle porteadoras, i governi dei due Paesi e l’Unione Europea non si sono scomposti di fronte allo sfruttamento di migliaia di donne marocchine, sulle cui spalle si regge non solo il business del contrabbando, ma anche la crescita economica dell’enclave spagnola.

Marcello Bocchini