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Necessità di Stato vs stato di necessità. Cronistoria e aspetti giuridici della vicenda Sea Watch 3

di Rossella Puca

La Sea Watch 3 aveva soccorso, nel corso della mattina del 12 giugno, 53 persone nella Zona SAR libica, alla distanza di 47 miglia nautiche dalle coste Libiche.

Le persone erano su un gommone, in condizioni precarie, nessuno col giubbotto di salvataggio, senza benzina, esperienza nautica o equipaggio.

Dopo che la Sea Watch aveva segnalato la presenza dell’imbarcazione in stato “distress” (in pericolo) a Italia, Malta, Olanda e Libia, la guardia Costiera libica inviava una comunicazione mail con cui dichiarava l’assunzione di coordinamento dell’evento SAR. La Sea Watch 3, trovandosi molto vicina al luogo dell’evento SAR, procedeva essa stessa a soccorrere le persone in pericolo, avvisando le autorità allertate.

Alle 23.00 del 12 giugno 2019, il Centro di Coordinamento dei Soccorsi (MRCC) della Libia comunicava l’assegnazione del POS (place of safety) nel porto di Tripoli. Il giorno dopo la Sea Watch 3 riferiva che la Libia non poteva qualificarsi come porto sicuro e che, pertanto, richiedeva un alternativo POS. Roma, qualche ora dopo, comunicava alla Sea Watch di non essere l’autorità competente per luogo dove era stato effettuato il soccorso, e non specificava alcun POS alternativo.

La Sea Watch 3 allora si dirigeva verso nord ed il Ministero dell’Interno inviava, a valore di notifica, una email con la quale ribadiva di rivolgersi ad altra Autorità SAR, intimando tra l’altro a non entrare in acque di competenza italiane in quanto l’ingresso sarebbe stato ritenuto pregiudizievole per l’ordine pubblico ed il passaggio non inoffensivo.

Bisogna specificare che in base alla posizione del salvataggio, i luoghi qualificabili come POS erano costituiti dalle coste italiane e maltesi.

La Sea Watch si portava a distanza di 17 miglia nautiche dall’isola di Lampedusa, primo porto incontrato sulla propria rotta, reiterando la richiesta di POS sia alle autorità Italiane che maltesi, indicando tra l’altro le condizioni di vulnerabilità in cui versavano le persone soccorse.

Proprio in quelle ore, nella giornata del 14 giugno 2019 veniva pubblicato il cd. Decreto Bis inasprendo le sanzioni legate all’immigrazione clandestina.

Attraverso l’utilizzo della normativa nuova di zecca, il Ministro dell’interno formalizzava il Provvedimento Interministeriale con la quale si disponeva il divieto di ingresso, transito e sosta della Sea Watch 3 in acque territoriali italiane.

A seguito di parecchi giorni trascorsi al limite delle acque territoriali la Sea Watch si dirigeva verso le acque territoriali italiane, disattendendo le intimazioni dell’alt. Giunta a poche miglia dal porto, la nave rallentava in attesa di ricevere disposizioni su dove ormeggiare a Lampedusa. È il 28 giugno quando sulla nave si procede anche a notifica del decreto di perquisizione e sequestro.

Solo alle ore 1.15 del 29 giugno 2019, la nave avvia i motori e inizia a muoversi verso il Porto di Lampedusa, poco dopo l’unità della Guardia di Finanza si sarebbe diretta verso la banchina contrapponendosi fra la banchina e la motonave per impedire l’attracco della Sea Watch 3 che, durante le manovre di ormeggio, urtava.

Il capo di imputazione, come definito dal pubblico ministero, si divide in due parti:

– nella prima si specifica il delitto di cui all’art. 1110 del codice di navigazione, perché, quale Comandante della motonave Sea Watch 3, Carola compiva atti di resistenza e di violenza nei confronti della nave da guerra motovedetta della Guardia di Finanza dopo aver reiteramente ricevuto via radio l’ordine di fermarsi “intraprendeva manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti”, indirizzando la rotta verso il porto. Dopo l’accesso, Rackete si dirigeva verso la banchina del molo commerciale già occupata dalla vedetta della GdF, urtandola, come già detto, con la fiancata della Sea Watch il fianco sinistro della motovedetta.

– nella seconda, vi è il delitto di cui all’art. 337 c.p., perché Carola Rackete usava violenza per opporsi ai pubblici ufficiali presenti a bordo della vedetta della Guardia di Finanza mentre compivano atti di polizia marittima.

Il fatto contestato deve essere vagliato unitamente alla luce di ciò che è avvenuto precedentemente all’attracco al porto di Lampedusa, ossia il soccorso in mare e gli obblighi interni ed internazionali che ne scaturiscono.

Nella parte “In diritto” dell’ordinanza, si ripercorre il quadro giuridico sotteso al caso a partire dall’art.10 della Costituzione per il quale l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tra queste rientrano gli accordi internazionali in vigore in Italia, in un carattere di sovra-ordinazione rispetto alla disciplina interna (Decreto Bis in primis).

Negli obblighi internazionali il primo riferimento riguarda la Convenzione ONU sul diritto del mare (Montego Bay del 1982 esecutiva in Italia nel 1994) cd. UNCLOS. L’art. 98 della Convenzione richiamata impone infatti al comandante di una nave di prestare assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare, nonché di recarsi il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento.

Si somma anche la Convenzione cd. SOLAS (Londra, 1974, esecutiva in Italia nel 1980) che impone al comandante della nave di prestare assistenza alle persone che si trovino in pericolo.

Infine, la Convenzione SAR (Search and Rescue) – che si fonda sul principio della cooperazione internazionale e stabilisce che il riparto delle zone di ricerca e salvataggio avvenga d’intesa con gli Stati interessati.

Quest’ultima Convenzione richiamata può ben legittimare un’unità navale di diversa bandiera che possa iniziare il soccorso allorquando lo richieda l’imminenza del pericolo per le vite umane.

Fra le norme interne vi è l’obbligo di soccorso da parte del comandante di nave secondo l’art. 1158 del Codice della Navigazione “Omissione di assistenza a navi o persone in pericolo”, rafforzamento dell’art. 490 del medesimo codice “Obbligo di assistenza”.

Al quadro normativo si aggiungono, in valutazione della liceità della condotta di Carola, l’art. 18 e 19 della Convenzione Montego Bay e dell’art. 10 ter del decreto legislativo 286/1998.

La prima definisce “un passaggio inoffensivo di una nave nel mare territoriale”, sarà infatti tale fintanto non arreca pregiudizio “alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Il passaggio consente la fermata e l’ancoraggio se necessario e finalizzato a prestare soccorso a persone e navi in pericolo.

La norma all’art. 10 ter prevede che lo straniero giunto nel territorio a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi. Da tale norma ne deriva l’obbligo, in capo alle autorità statali, di soccorrere e fornite prima assistenza allo straniero che abbia fatto ingresso, seppur irregolare, nel territorio dello Stato.

L’ordinanza di scarcerazione di Carola Rackete da parte del GIP ha ritenuto che la decisione della capitana di non dirigersi verso il POS di Tripoli, non ritenendolo porto sicuro, sia stata conforme alle raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio di Europa oltre che a recenti pronunce giurisprudenziali (GUP Trapani, 23 maggio 2019).

La capitana aveva escluso i porti di Malta perché più distanti e quelli tunisini, perché secondo la stessa valutazione della Rackete non erano porti sicuri, in base alle informazioni ricavabili da Amnesty International, oltre che alle previsioni della Convenzione SAR di Amburgo. La Tunisia tra l’altro non prevede una normativa a tutela dei rifugiati quanto al diritto di asilo politico.

Il GIP specifica che, in forza della natura sovraordinata delle fonti convenzionali e normative, già richiamate, non si è ravvisata l’idoneità di direttive e provvedimenti ministeriali a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della Sea Watch 3.

Viene dunque esclusa la ricorrenza all’ipotesi dell’art. 1110 del codice della Navigazione poiché come previsto dalla Corte Costituzionale nel 2000, le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non via sia autorità consolare.

Per quanto riguarda invece l’art. 337 del codice penale, secondo quanto emergente dalle dichiarazioni rese dall’indagata e dalla visione del video, la portata offensiva rispetto la prospettazione accusatoria fondata sulle rilevazioni della polizia giudiziaria è molto ridimensionata. Il reato, comunque, è scriminato ai sensi dell’art. 51 del codice penale, per aver agito in adempimento di un dovere ricavabile dal quadro normativo sopra richiamato.

Come ovvio che fosse, a seguito della pubblicazione dell’ordinanza, il Ministro Salvini ha organizzato una diretta facebook in cui ha nuovamente attaccato la Magistratura, richiamando anche i recenti scandali in CSM ed invocando nuove procedure di selezione. L’attacco è dunque sempre più sistematico, ancorché le decisioni giurisdizionali appaiono non allineate con le posizioni politiche dell’attuale establishment politico.

Ogni Stato detiene una Sovranità propria ed un diritto di poter deliberare su determinate scelte, quali la gestione emigrazione, in totale autonomia. I molteplici Decreti sicurezza, sono destinati però a cadere nel vuoto nel momento in cui vengono richiamati i svariati trattati che devono essere obbligatoriamente osservati: pacta sunt servanda. Fin qui si gioca la partita del diritto.

Un’ultima considerazione, di più alto tenore, consiste nella determinazione del disobbedire alle leggi ingiuste: come nel mito di Antigone, Carola è venuta meno all’alt di un Creonte di turno, quest’ultimo è destinato a cedere il passo ad una legge non scritta, ma riconosciuta da tutti, uomini e donne, in tutto il mondo: la solidarietà sociale, il diritto alla vita per tutt*.