Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

“Poi vennero a prendere me”

La guerriglia fascista a Torre Maura

Fotografie di Vanna D'Ambrosio

Il Centro a Torre Maura

A Torre Maura non c’ero solo il giorno della manifestazione e della guerriglia urbana dei fascisti, ma ancora prima, quando in quel centro, in via dei Codirossoni, a ridosso della Prenestina e Casilina, ci lavoravo da operatrice, sino a poco prima dell’arrivo dei rom.

Un grande palazzone azzurro della periferia est, un ospedale fisioterapico sino a quando è servito, e poi adibito all’accoglienza di ogni genere, ordinaria e straordinaria. Immenso, e per questo suddiviso in tre strutture diverse dalla stessa cooperativa che nel corso dell’ultimo decennio ha ospitato immigrati.
Il vecchio Cas, uno dei più capienti della capitale, aveva dovuto chiudere dopo il decreto di Salvini. Parte della struttura era stata ripulita per accogliere 70 famiglie rom con 33 bambini. Una delle preoccupazioni maggiori era il controllo di quel posto, anche durante la notte, onde evitare che, la maggior parte sulla strada, potesse essere occupato e non utilizzato per il fine desiderato.
Lo abbiamo svuotato dei simil-letti, dei simil-armadi e delle simil-sedie e lo hanno ripulito, su un deposito infestato da anni di utilizzo; imbiancato i muri e portato qualche attrezzatura, nuova, usa e getta, cucine, fornetti e in poco più di un mese è stato di nuovo pronto per ospitare, questa volta, i rom, trasferiti da altra struttura per cui non c’era più contratto d’affitto.
Come è sempre stato da quando l’accoglienza funziona, il quartiere sapeva da tempo che il centro sarebbe stato pronto per ri-accogliere ed essere utilizzato rapidamente.

La periferia di Simone

Conosco bene quel territorio. Come è collegato con gli autobus, quali sono i servizi, il commissariato proprio lì dietro all’angolo, i ragazzi che girano intorno. Gli abitanti, i nostri vicini, li ho visti presto, alla mattina, portare i cani a passeggio mentre spalancavo i cancelli della struttura e mai crucciati, pieni di dignità nella loro immagine; ho visto i ragazzini del quartiere cercare i miei ospiti di cui erano diventati amici; ho visto tanta gente passare di fronte ai nostri cancelli, alla nostre porte, portare i vestiti o i libri, da tanti anni e non ricordo ingiurie. Anzi, “col vicinato i rapporti sono ottimi“, lo sentii a settembre, quando lì fui trasferita. Ed è stato sempre così, come ha anche confermato un agente della polizia, la mattina della manifestazione. “Anche per me è lo stesso, qualche volta abbiamo fatto degli interventi nella struttura, ma mai nulla di grave, imparagonabile con quello che è successo in questi giorni“. Quasi nessuno se lo aspettasse.

Ci abito in questo territorio. Gente della periferia, gente che soffre le disgrazie di questa immensa e screditata periferia romana, famiglie numerose conservate in queste case popolari alte come le montagne di rifiuti che si accatastano senza essere raccolti. Alle spalle, i vecchi casali, il prato, il verde, il colle, i ricordi dell’infanzia, il poco che ne rimane, rivestito di megastore, di Hilton, di capannoni, di cemento, di speculazione edilizia.
Negli autobus, ancora gli anziani sono quelli che ripetono ai ragazzini come Simone, di andare a scuola, di continuare gli studi, di diventare qualcuno, quando sprofondano negli schermi dei cellulari. Vero, ci hanno aperto la metropolitana lì, quella senza autista, levando il resto degli autobus e il trenino giallo, attraverso cui i vecchietti raggiungevano il centro. Hanno ricoperto velocemente le buche sull’asfalto, ma hanno lasciato l’abbandono, la povertà, la disoccupazione e le discariche a cielo aperto.
L’ha detto bene Simone, quali sono le vere problematicità della zona, creando imbarazzo a Casa Pound e alle loro argomentazioni, che nella scala gerarchica e semplicistica, si rivolgono contro gli ultimi: la colpa “non è dei rom se tua moglie si sveglia presto perché lavora nell’altra parte della città“, ma c’è qualcosa in più, cercava di fargli capire Simone.

L’assedio di Casapound

Non avrei voluto passarci, eppure l’ho fatto, per un legame affettivo. Pensavo all’operatore del pane contro cui si è riversato l’irrazionale, ai miei ex colleghi che si sono dovuti incatenare nella struttura e alle brutte parole che a loro hanno rivolto; pensavo a quanti lì ci lavorano e ci vivono, allo loro sicurezza, alla nostra sicurezza, indifesa, contro gli attacchi fascisti di CasaPound e Forza Nuova.

Ho visto quel territorio violentato dal disprezzo, dall’intolleranza, dalle macchine bruciate, dai cassettoni rivoltati, da un odio sprezzante e disumano. Un gruppetto di fascisti bruciava fumogeni, mentre aspettava che i rom venissero allontanati. Le loro donne e le loro bambine si affacciavano al muretto aspettando il momento che loro simili non avessero più quel tetto. Le ragazzine guardavano questo spettacolo mangiando kebab. Mani alzate al fascismo, tatuate di santi, che accusavano gli altri di strappargli il loro pane dalla bocca, in una periferia tipica della Capitale, ridefinita dal parziale godimento dei diritti civili e sociali, sintomo di uno Stato assente che aumenta il pregiudizio e accresce la distanza e le deportazioni.
Solo Casapound, qui è venuta a portarci da mangiare, urlava un vecchietto davanti alle telecamere“, il martedì della guerriglia urbana.

Su via dei Codirossoni era stata imposta la rabbia delle politiche ingrassate contro gli ultimi arrivati, rabbia che era diventata ancora razzismo, lungo la sovranità, la nazionalità e la territorialità1 sull’onda di un’accoglienza, che non è un sistema o una rete o una convergenza di buone pratiche, ma la cui retorica è ancora l’empowerment, con poca o nulla attenzione all’uso e all’abuso del potere da parte di coloro che stabiliscono chi debba essere empowered.
Non siamo razzisti ma i rom proprio non li vogliamo“, ripetevano quei pochi fascisti a Torre Maura.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente perché ero un comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.

  1. La gravità del razzismo istituzionale non va misurata guardando alle intenzioni di chi lo ha prodotto, ma giudicando l’entità dei danni che determina” C. Bartoli. Razzisti per legge. L’Italia che discrimina.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.