Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Prima parte dell’VIII rapporto sul decimo viaggio in Bosnia (22-25 febbraio)

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, operatori indipendenti

Photo credit: Diego Pizi (Reportage "La nuova Idomeni")

La situazione nel Cantone Una Sana diventa sempre più complessa, secondo due profili molto diversi ma, per chi scrive questo rapporto, necessariamente complementari:
– quello, modesto, del nostro impegno di volontari indipendenti;
– quello, epocale, della condizione dei migranti.

Il primo profilo è, ovviamente, poco significativo. Ma è quello sulla cui spinta scriviamo i rapporti, cercando di informare intorno a una situazione in continuo cambiamento! Da esso dipendono la nostra capacità o le nostre difficoltà di relazioni e di movimento. I nostri strumenti sono la raccolta di informazioni e l’uso delle donazioni, intrecciati da una difficile speranza politica.

Dobbiamo muoverci fra diverse figure con diverse modalità di relazione:
– il rapporto diretto con singoli migranti, non esente da ambiguità;
– il rapporto con volontari che operano con le istituzioni, come quelli dell’IPSIA;
– il rapporto con volontari che operano al di fuori delle istituzioni, come No Name Kitchen, SOS team Kladuša;
– e altri ancora: gruppi spontanei e singoli individui (e anche giornalisti e cineasti, il cui sguardo è ancora diverso).

Fra tutte queste c’è uno scarto: sono punti di vista diversi, ora convergenti, ora divergenti, talvolta anche contrapposti; in alcuni casi meri osservatori.

Evidentemente i volontari dell’IPSIA che operano nel Bira di Bihac, gestito dall’IOM, non possono fare quello che fa, ad esempio, NNK, con la sua essenziale opera di denuncia dei respingimenti. Ancora diverso è il caso dei volontari non stanziali, che arrivano con ritmi irregolari a portare soprattutto vestiari, alimentari e medicine.

Di questo scarto noi dobbiamo tener conto, anche metodologicamente, mantenendo un equilibrio non facile ma essenziale, per cercar di comprendere e far conoscere una situazione complessa e dinamica, nel tentativo costante di non semplificare, di non proiettare i nostri desideri e le nostre velleità, di non fare sintesi artificiose.

La complessità non è riducibile a schemi interpretativi, dei quali tuttavia non si può fare a meno: per camminare ci vuole un filo di luce. Dobbiamo avere ben chiaro che le nostre letture sono provvisorie e parziali; che ci muoviamo in situazioni in buona parte sfuggenti. Tracciamo un sentiero tortuoso senza sapere dove ci condurrà, ma vogliamo rimanere fedeli a un tipo di impegno che consideriamo politico e non assistenziale.

Dopo dieci viaggi in Bosnia, diventiamo sempre più consapevoli dei nostri limiti.
Consideriamo questa consapevolezza uno stimolo per continuare.

2. Il game – in cui tante persone si mettono veramente in gioco – non si è mai interrotto. Lo conferma anche il più importante centro triestino d’accoglienza (ICS). E, senza dubbio, riprenderà con forza all’arrivo della primavera. La situazione diventerà sempre più grave, malgrado i non pochi soldi europei spesi in Bosnia e i molti elargiti alla Turchia, dato che manca una politica che non sia di mero blocco, contenimento e difesa ottusa dei confini – peggio: una politica di respingimento, come quella operata dal nostro governo, responsabile di molte morti, che, in parte, rimarranno ignote. Ci sono morti anche qui, non solo nel Mediterraneo, di cui si ha notizia più o meno casuale, dagli amici e compagni nel game.

Continuano i respingimenti con l’aiuto di Frontex, anch’esso operativo sulla frontiera croata, insieme alla polizia. Un ragazzo afgano, appena respinto assieme al suo gruppo, ci raccontava che era stato bloccato da ‘militari’ che poi lo hanno consegnato alla squadra speciale mascherata della polizia croata. Ci ha anche detto, con un sorriso, che avrebbe ritentato la sera successiva.
Impossibile fermarli!

3. Secondo il rapporto dell’ONU, pubblicato in gennaio, al 31 gennaio 2019 i migranti arrivati in BiH erano 5400, di cui 4.700 nel Cantone Una-Sana. Vi erano inoltre quelli non registrati: si parla di 700-800 in case private, abbandonate o in giro. Il numero dei fuori centri è ovviamente sempre approssimativo.

In questo viaggio, abbiamo dovuto constatare come il rapporto complesso fra autorità cantonali e centrali della BiH stia spingendo le prime a far rispettare i numeri già stabiliti con le seconde per cui i migranti nel Cantone Una-Sana non devono superare una certa quota.
Ecco la tabella dei dati ufficiali:
a22qpi.png

A fine di gennaio al Bira camp di Bihac erano invece registrati 2.228 migranti, contro una capacità massima prevista di 1.800 persone.

Al Borici ristrutturato erano circa 150; famiglie con figli: una quarantina di uomini, 45 donne e poi bambini e bambine; fra questi un ventina vanno a scuola. Frequentano una scuola primaria pubblica, che in Bosnia dura otto anni; per ora si tratta di “corsi di preparazione” separati, ma dovrebbero essere integrati nei corsi normali.

Al Borici ci sono problemi con l’impianto elettrico: questo riduce per ora il numero degli ‘ospiti’ che potrebbe salire intorno ai 580. Il cibo a Borici arriva dalle cucine del Bira.

Nell’ex fabbrica Miral di Velika Kladuša la capacità massima di alloggio prevista è di 700 persone (IOM ha ampliato la capienza 300 a 700 attraverso la creazione di una grande tenda / Sala Rubb davanti all’edificio Miral), mentre a fine gennaio erano presenti 902 migranti.

All’hotel Sedra, nella municipalità di Cazin, con una capacità massima di sistemazione di 420 persone, alla fine di gennaio erano registrati 342 rifugiati e migranti.

Le autorità cantonali hanno pertanto iniziato a deportare dai due contenitori di Bira e Miral le persone considerate in eccesso, senza nessun preavviso e senza nessun criterio, separando anche minori dalle famiglie per il solo fatto che si trovavano casualmente nel reparto degli uomini. Abbiamo saputo da più fonti che le persone sono state deportate a Sarajevo in tende prive di tutto: acqua, elettricità, cibo, e che una parte della popolazione della città ha protestato anche con blocchi stradali. Molti di loro ripartono subito per tornare in dietro e riavvicinarsi alla frontiera con la Croazia, nonostante non possano prendere nessun mezzo, tranne qualche taxi “illegale” che si fa ben pagare…

Tutto ciò ha prodotto, soprattutto al Miral di Kladuša, una vera e propria fuga dal capannone e un aumento dei tentativi di “game”: nel percorso da Kladuša a Bihac abbiamo visto circa una cinquantina di ragazzi in partenza chi con lo zaino in spalla, chi con semplici sacchetti di plastica senza una coperta e con scarpe da ginnastica, verso i boschi dove di notte la temperatura scende a meno 10, 15 ma può arrivare anche a 20 gradi sotto zero.

4. Siamo entrati al Bira per la quarta volta, con il necessario permesso. Rispetto all’inizio, quando tutto era un work in progress, ora il degrado è molto evidente. Quello che colpisce all’ingresso è la luce cupa, la squallida vastità degli ambienti e, più da vicino, quando si avanza fra le lunghe tende da cento posti e i contenitori, l’odore sgradevole. Ci viene da dire: l’odore di un’umanità infelice in un luogo improvvisato per una provvisoria sopravvivenza.

Attualmente, vi sono alloggiate 1800-1900 persone (da oltre 2.200 che erano). Al Bira ci sono uomini soli in grandi tende della Mezzaluna turca, minori non accompagnati (218 secondo i dati ONU) e famiglie (intorno alla cinquantina con 192 membri) in container da sei posti. Le condizioni di vita sono dunque molto pesanti, sia per l’evidente serialità burocratica della gestione dell’IOM, che per le condizioni igieniche disastrose, l’inadeguatezza degli impianti sanitari di fronte al numero delle persone, in parte interni, in parte esterni (le docce calde sono rare per problemi di riscaldamento dell’acqua). Ovviamente pesano anche le abitudini culturali degli ospiti.

C’è una tenda della Croce Rossa di Bihac per i primi interventi sanitari, mentre l’intervento sanitario complessivo è gestito da Danish Refugee Council, la più grande ong danese, i cui medici sono presenti 4 ore al giorno tranne sabato e domenica: in questi due giorni, per i casi di emergenza, le persone dovrebbero essere accompagnate nelle strutture sanitarie locali. Tuttavia, le ambulanze non si spostano per le difficoltà del sistema sanitario locale: si cerca di ovviare con i volontari del Jesuit Refugee Service, che si occupano appunto del trasporto sanitario.
Ci dicono che i medici che operano a Bihac non sono quelli locali, ma vengono da Kladuša e da Buzin. Al Bira, inoltre, sono presenti Save the children ( bambini) e Caritas Banja Luka (lavanderia). La sicurezza è privata, come in tutti i centri del Cantone.

Abbiamo già scritto e riferito sull’inadeguatezza del vitto, preparato in sede.
Grandi insiemi di persone, trattate come numeri, che non hanno niente da fare tutto il giorno, non possono non produrre, prima o poi, situazioni difficili. Alle questioni etniche, da non sottovalutare, trattandosi di abitudini culturali radicate, si deve aggiungere la tendenza, abituale nelle socialità maschili coatte, alla formazione di gruppi intorno a leader autoritari. Poche settimane fa, è scoppiata una grave rissa collettiva, con interventi della polizia e numerosi feriti 1.

Troviamo traccia di questo anche nell’ultimo rapporto di gennaio 2019 di United Nations in Bosnia and Herzegovina: “The number and scale of security incidents in TRCs increasedin January, especially in the BiraTRC whereanumber of fights started, allegedly caused by thefts and conflicts between group of different nationalities and ethnicities. It is likely that tensions areprobably by the constant overcrowding of sitesand the fact that most refugees and migrantsare insidethe centre for longer hoursbecause of low temperatures and short duration of daylight. Alcohol and substance abuse also contributes to fuelling conflicts. During a particularly serious fight, the police wasimmediately called and promptly intervened by removing thoseidentified as instigators”. 2

Abbiamo avuto notizia anche di un’altra incursione della sicurezza all’interno del Borici (l’edificio ristrutturato a uso delle famiglie e minori) la notte del 14 febbraio. Pare che un padre e i suoi due figli siano stati feriti, mentre le immagini in video mostrano dei ragazzi pestati a sangue con i manganelli. Nei commenti a quella notte brutale si sente ripetere: “la sicurezza odia i migranti, ci trattano come animali, non siamo animali, siamo umani”.

L’insieme emotivo che si sprigiona fra tende e container in questi lugubri maleodoranti immensi capannoni, dal soffitto altissimo, nati per tutt’altro scopo, è fra il disperato e il cupo. Il rischio del game appare veramente come l’unico orizzonte di speranza.

Anche la formazione di gestori interni del game che, in cambio di denaro, organizzano i passaggi dei confini o in proprio o anche per conto di organizzazione più ampie di passeur, rientra in questo (dis)ordine delle cose.

L’angolo del thé, gestito dall’IPSIA, che stiamo in parte finanziando – aperto dal lunedì al venerdì dalle 11 alle 13, dove si aggregano dalla 3 alle 400 persone al giorno – è l’unico luogo e momento di socializzazione, con tavoli e panche per accomodarsi, giocare a carte o a scacchi; ci sono, frequentatissimi, un tavolo da ping-pong, dove si esibiscono raffinati giocatori, e un calcetto. E’ prevista una struttura simile anche al Borici.

IPSIA sta allestendo una palestra all’aperto nel retro del campo, da aprirsi in primavera, per permettere ai migranti, soprattutto uomini ovviamente, di poter fare attività fisica con lo scopo di poter parzialmente allentare le tensioni così frequenti. Sono previste anche attività psico-sociali – laboratori, animazione, educazione (rapporto IPSIA febbraio 2019).

4. VELIKA KLADUŠA
A Kladusha, nel capannone Miral (nel villaggio di Polje a qualche chilometro dal capoluogo comunale), che contava più di 700 persone a metà febbraio, sembra che il 25 febbraio – a detta di alcuni migranti – ne fossero rimasti solo una cinquantina a causa dell’improvvisa deportazione verso Sarajevo3. Molti ragazzi, spinti dalla paura di essere prelevati, erano infatti fuggiti cercando sistemazioni più o meno precarie in attesa del game. Il commento di un volontario pubblicato in Opet Bosna illustra la tensione di quel giorno: “…i militari non hanno permesso ai ragazzi di prendere i loro averi, una decina di persone sono state picchiate con i manganelli perché quando hanno visto gli autobus hanno provato ad allontanarsi. Oggi pomeriggio nel Miral c’erano meno di 50 persone, gli altri erano in città. Molti stasera partiranno per il Game e molti occuperanno case. Nessuno domani vuole rischiare la deportazione nel campo di Sarajevo”.

Intorno alla cittadina e per le sue strade si vedono numerosi migranti, anche se l’accoglienza della popolazione e dei negozianti è alquanto diminuita negli ultimi mesi, ma non cessata del tutto.

Si è inoltre prodotta un’altra grave difficoltà: il dottor Dimitri Anakiev comunica che “la legge della Federazione BiH sulla sanità è stata sospesa per i migranti allo scopo di impedire l’assistenza sanitaria di migranti e rifugiati in Bosnia ed Erzegovina. Le farmacie non sono autorizzate a vendere farmaci prescritti a rifugiati e migranti, … la polizia li perquisisce in cerca di medicine e le sequestra”… “Ieri [25 febbraio] una farmacia di Velika Kladuša si è rifiutata di vendere farmaci prescritti a un giovane afghano al quale lo psichiatra locale ha diagnosticato due malattie psichiatriche … oggi abbiamo un paziente al quale la polizia di Velika Kladuša ha tolto i medicinali per diabetici (Glucophage 850 mg); la polizia ha anche sequestrato la sua prescrizione per le medicine. Dopo che il nostro paziente ha iniziato a urlare che ha bisogno delle compresse per il trattamento del diabete, la polizia è andata con lui in clinica, dove il medico ha confermato che la sua vita non è in pericolo al momento”. Il migrante non è stato risarcito per il sequestro delle medicine.

Per il momento l’attività di No Name Kitchen è stata bloccata nonostante l’Associazione stia cercando di ottenere i necessari permessi per riprendere il suo intervento. Rimane attivo un ridotto SOS Team Kladusha, con cinque volontari, alcuni dei quali non stabili. Fra il ristorante accogliente e la stanza d’intervento di SOS team si addensa un piccolo momento di socialità: quando si passa, larghi sorrisi e gesti d’accoglienza.

E’ triste, invece, vedere il recinto delle docce di NNK, nell’ex macello, una volta comunque punto di socialità, chiuso e deserto, abitato soltanto da qualche cane.
A Kladuša abbiamo preso contatto con una maestra locale, che, con un dolce sorriso sotto il turbante, aiuta i rifugiati sul piano alimentare, offrendole un sostegno per le sue spese.

Abbiamo inoltre comprato più di una trentina di scarpe, in parte distribuite da noi, in parte date a un operatore dell’associazione Opet Bosna con cui collaboriamo, attivo anche in SOS team Kladuša.

5. KLJUC
In questo viaggio ci siamo spinti fino a Kljuc, a 100 km circa da Bihac, vicino al confine con Repubblica Serpska. E’ il luogo in cui inizialmente venivano scaricati i migranti ritenuti in soprannumero a Bihac e Kladusha, che oggi vengono invece deportati a Sarajevo. E’ sorvegliato dalla polizia cantonale per impedire gli arrivi dalla Serpska o da Sarajevo dei molti che vogliono tornare ai confini.

Subito fuori dal paese di Velečevo, a 5 km dal capoluogo, in una sorta di garage o deposito privo di porta, abbiamo trovato 15 migranti, fra cui una famiglia siriana composta da una donna con tre figli (il più giovane 15 anni) e il fratello. Gli altri migranti erano afgani e pakistani. Nel garage dove dormivano, c’è una stufetta di fortuna alimentata a legna, che fa più fumo che caldo. Il luogo intorno è desolato, di una desolazione tutta umana, perché il paesaggio, sui due versanti della valle del fiume Sana, è verdeggiante di boschi, con rocce che ricordano le Dolomiti. Inizialmente queste persone dormivano e vivevano all’aperto.

Sono curati – è il caso di dirlo, con tutti i limiti di questa situazione – da Sanella Lepirica e suo padre, unici componenti della Croce rossa locale, che provvedono ai tre pasti quotidiani e a rifornirli di indumenti e di un minimo livello di assistenza sanitaria. Sono sorvegliati 24 ore al giorno da una pattuglia della polizia locale. Peraltro, ci riferiva Sanella, la popolazione di Kljuc, ha un atteggiamento piuttosto favorevole.

E’ questo un punto dolente e caratteristico della terra bosniaca, che ha sofferto moltissimo nella guerra civile di poco più di un ventennio addietro ed è inoltre di cultura islamica – ci colpisce sempre viaggiando nelle cittadine e nei paesi il contrasto tra la voce rituale del muezzin, che richiama convenzionalmente paesaggi ‘orientali’, e l’ambiente circostante che è invece familiare … Ma è una popolazione povera, che vive in piccole città e villaggi, piuttosto provata dall’imprevisto arrivo di masse relativamente notevoli di profughi.
Pesa, soprattutto, la mancanza di ragionevoli prospettive per il futuro.

  1. http://normala.ba/2019/02/01/masovna-tuca-migranata-u-bihackoj-biri-policijski-komesar-mujo-koricic-uz-suglasnost-premijera-ruznica-poslao-specijalce-sa-uvedu-red-od-sutra-nijedan-migrant-nece-uci-u-krajinu/
  2. http://ba.one.un.org/content/unct/bosnia_and_herzegovina/en/home/publications/unct—monthly-operational-updates-on-refugee-migrant-situation.html

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".