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Sfruttati, esclusi e completamente abbandonati dalle istituzioni: braccianti rom a Borgo Mezzanone

Antonio Ciniero*, MigrAzioni* - 5 settembre 2016

Ph. Ilaria Papa

Siamo un territorio di frontiera, non ci manca nulla qui: Cara, “Pista”, ghetti, disagio sociale…siamo la periferia della periferia…

Sono le parole di una volontaria della Caritas di Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, appena 10 km da Foggia. Oggi è una delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo in Puglia.
Sul piccolo territorio di questo borgo rurale è localizzato un CARA 1, con una capienza di oltre 600 posti, punto di arrivo dei bus turistici che portano, scortati dalle auto dei carabinieri, centinaia di giovani migranti che – in moltissimi casi – trovano lavoro nei campi. Alle spalle dal CARA, sulla pista, lunga circa 3 km, di un ex aeroporto militare, una cinquantina di container, più svariate tende e baracche, in cui trovano rifugio, in questo periodo di raccolta, non meno di 800/900 persone provenienti da diverse zone del continente africano: Sudan, Guinea, Mali, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Togo e Senegal, le provenienze maggioritarie 2. Ci sono poi diversi casolari, più o meno diroccati, riparati con materiali di recupero, e altri “micro-ghetti” che offrono precario riparo ad altri lavoratori delle campagne della Capitanata e del Nord barese.

Luoghi che costringono la vita di chi li abita ad una marginalità estrema. Tra questi, c’è una baraccopoli che più di tutti gli altri sembra catapultare chi vi giunge molto lontano, in altre epoche o in altre latitudini. Questo posto invisibile e tuttavia ben evidente dalla strada statale, sorge su un terreno privato con il perimetro delimitato da pali, un traliccio dell’alta tensione e da alcune pale eoliche. Non è contiguo ai vicini luoghi dell’esclusione: tutto intorno, solo distese di terra a perdita d’occhio. A un lato della baraccopoli, un grande fossato – in passato utilizzato come vascone per l’irrigazione – è stato trasformato in una discarica a cielo aperto dove sono conferiti i rifiuti che nessun servizio d’igiene pubblica smaltisce.

Ci sono almeno un centinaio di baracche costruite con materiale di risulta: vecchie porte, tavolacci di compensato e lamiere sono divenuti pareti e tetti di precarie abitazioni ricoperte da teli di plastica trasparenti, gli stessi che si usano per ricoprire le intelaiature delle serre che proteggono i prodotti agricoli dalle intemperie.

È una baraccopoli completamente abbandonata a sé stessa. Qui le istituzioni non si fanno vedere. Non c’è acqua, e per prenderla bisogna percorre 5 chilometri e arrivare, in alcuni casi anche a piedi, fino alla fontana che si trova davanti alla parrocchia di Borgo Mezzanone per riempire le taniche.

Gli abitanti del campo sono circa 800: tutti cittadini bulgari, nella quasi totalità provenienti dalla cittadina di Sliven 3. Si tratta di interi nuclei famigliari, uomini e donne rom, che lavorano come braccianti nella raccolta del pomodoro, dell’uva, e poi, con l’avanzare delle stagioni, delle cime di rapa, dei finocchi, ecc. È il loro lavoro, assieme a quello degli altri braccianti della Capitanata, sottoposto a livelli di sfruttamento altissimo, che permette di consumare sulle tavole italiane e di mezza Europa i rinomati prodotti agricoli made in Puglia.
A differenza degli altri ghetti rurali, in cui massiccia è la presenza di adulti, per la maggioranza uomini, la metà di chi ci vive è costituita da bambini, moltissimi di pochi anni.

Il numero degli abitanti del ghetto bulgaro varia in base ai periodi dell’anno: cresce in estate e diminuisce via via che ci si inoltra nei mesi invernali. Dalla fine di settembre, moltissimi, con i bambini, fanno ritorno in Bulgaria, e gli abitanti si dimezzano, per divenire meno di cento tra dicembre e aprile. In questo periodo, restano solo i pochi che continuano a lavorare in campagna anche in inverno.

In Bulgaria abbiamo le case, ma non abbiamo il lavoro. Per questo siamo qui”, mi ripetono. Con i risparmi faticosamente messi da parte grazie al lavoro in Italia, queste famiglie riescono a vivere in Bulgaria durante i mesi invernali, dove mandano i figli a scuola, fino a maggio o giugno, quando si riparte per l’Italia per lavorare nuovamente nella raccolta stagionale. Un ciclo di migrazioni che si ripete oramai da molti anni, per alcuni anche da più di 10 anni.

Il racconto di Ivan

Iván 4, un uomo di 53 anni, mi racconta la sua storia, mentre insieme alla sua famiglia, pranziamo seduti su taniche e cassette di plastica davanti alla sua baracca. È in Italia da nove anni, ma solo da quest’anno vive nella baraccopoli. Fino all’anno scorso aveva trovato riparo con la sua famiglia in un casolare nelle campagne di Borgo Mezzanone dal quale è stato poi sfrattato. Anche la sua è una migrazione stagionale, anche lui ha la casa in Bulgaria, ma non ha più un lavoro: in precedenza lavorava in un mattatoio, come suo padre prima di lui, da quando aveva 22 anni e aveva concluso gli studi. Perso il lavoro, per far fronte alle esigenze della sua numerosa famiglia, ha deciso di tentare la via dell’emigrazione, come altri prima di lui hanno fatto nella sua città.
La moglie di Iván, María, sua coetanea, è con lui nella baraccopoli e nel lavoro nei campi della Capitanata. Iván e sua moglie hanno sei figli, tre maschi e tre femmine. Cinque dei loro figli sono al momento in Bulgaria, si prendono cura della casa e dell’orto che circonda la loro casa a Sliven. Riescono ad andare avanti solo grazie alle rimesse che Iván e sua moglie inviano periodicamente. Dei sei figli, in Italia, nella baraccopoli, al momento, c’è solo la figlia più piccola Penka, di 23 anni, con suo marito Nikolay, di 24 anni, e la loro unica figlia, Elena, di appena un anno. Penka non può lavorare nei campi, perché deve prendersi cura della piccola Elena, ma non voleva nemmeno stare lontana da Nikolay. Sono sposati da appena un anno, e questa è la prima volta che segue Nikolay che invece lavora nei campi insieme ai suoi suoceri già da 4 anni. Da giugno alla fine di settembre, il tempo necessario per mettere da parte il denaro con il quale provvedere alle esigenze della famiglia nei mesi invernali.

Il salario

Mettere i soldi da parte per l’inverno non è cosa facile. Il lavoro è duro e il salario è misero. La paga, racconta Iván, varia rispetto al tipo di raccolta. Si riesce a guadagnare dai 20 ai 30 euro al giorno, ed il pagamento è sempre a cottimo. Il periodo dei pomodori, quest’anno, è andato peggio degli altri anni: c’è meno pomodoro e ci sono più persone, di conseguenza i salari sono scesi e come paga riceve solo 6 centesimi per ogni cassa da 15 kg, riempita con pomodori San Marzano, gli stessi che Iván e María, ci offrono durante il pranzo.

Il calcolo è presto fatto: quest’anno, per guadagnare almeno 20 euro – con le tariffe che mi riferisce Iván e mi confermano altri 3 braccianti – bisogna riempiere al giorno oltre 330 casse, quasi 5 tonnellate di pomodori raccolti durante le 10 ore di lavoro. Una media di 33 casse riempite in un’ora, meno di due minuti a cassa. Un ritmo estenuante, inumano da mantenere, soprattutto sotto il sole dell’estate pugliese.
E loro, dice Iván, sono anche fortunati perché, innanzitutto, non lavorano anche il pomeriggio, come fanno gli africani, e, soprattutto, a lavoro, lui, sua moglie e il genero, ci vanno con la macchina e non pagano un intermediario, un caporale. Anche per quanto riguarda i proprietari delle imprese per le quali lavora in nero, si tratta di conoscenze dovute ai nove anni di permanenza stagionale in Italia, e anche in questo caso, non deve rivolgersi a nessun intermediario. Chi invece non ha una macchina o, pur avendo una macchina, non conosce i proprietari dei campi, i padroni come li chiama Iván, deve sottrarre dalla misera paga giornaliera anche i costi del servizio di trasporto sul campo, quindi non meno di 5 euro, e la percentuale che il caporale tiene per sé sul compenso per il prodotto raccolto.

Non c’è alternativa a questo, dice Iván, questo è il lavoro e questo si deve farevorrei fare altro, ma non c’è lavoro in Italia…c’è la crisi, ripete, come mi hanno ripetuto, in sostanza, prima di lui quasi tutti gli altri braccianti con cui ho parlato negli ultimi 5 anni.

Salutandolo gli chiedo per quanto tempo abbia ancora intenzione di venire a lavorare in Italia. Mi risponde che lui continuerà a farlo ancora per molto tempo, almeno finché la Bulgaria non adotterà l’euro, perché, se dovesse farlo, secondo Iván, i 1500/1600 euro che con tanta difficoltà e sofferenza riesce a guadagnare per i mesi invernali non sarebbero più sufficienti per vivere in Bulgaria.

Antonio Ciniero

  1. Centro di accoglienza in cui vivono i richiedenti asilo in attesa dell’esito della procedura di richiesta della protezione internazionale.
  2. Molti di coloro che vivono sulla pista provengono dal CARA e ci sono finiti dopo il diniego della protezione internazionale. Altri sono lì nonostante abbiano ottenuto il riconoscimento di una qualche forma di protezione. Alcuni sono passati anche dai percorsi di seconda accoglienza, altri ancora ci vivono perché è l’unico luogo dove possono stare per lavorare come braccianti nella raccolta stagionale. Per approfondire questi aspetti, è utile la lettura del report Fuori Campo, curato da Medici Senza Frontiere.
  3. Sliven dista da Sofia circa 350 km e conta 100.000 abitanti. Oltre il 30% degli abitanti di questa città sono rom e, tra questi, sono moltissimi ad avere avuto esperienze migratorie stagionali in Europa occidentale. Per approfondimenti su questo aspetto, si veda il contributo di Campagne in Lotta, Foggia-Slivenandata e ritorno: Appunti per un’inchiesta militante sulle ‘altre braccia’.
  4. Per tutelare la privacy di chi ha raccontato la sua esperienza personale, si è deciso di utilizzare uno pseudonimo.