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Sherwood Festival: un parcheggio di un altro mondo

Tra i 60 richiedenti asilo che collaborano all'edizione 2017

Photo credit: Angelo Aprile (la pizzeria dello Sherwood Festival)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 – Padova)

Forse un giorno il pianeta Terra sarà invaso dagli alieni, sarà per essere colpito da un’asteroide o sarà sull’orlo del collasso a causa del surriscaldamento globale.
Forse saranno scelti gli uomini geneticamente meglio dotati, i più giovani e forti, e verranno spediti nello spazio alla ricerca di un pianeta dove il genere umano possa ricominciare una nuova vita, in missione per salvare la propria famiglia.

Potremmo essere noi i protagonisti di questo appassionante film day after. Tra tutti i corpi celesti, scegliamo di atterrare in quello che ci sembra prometta più possibilità. Qui ci imbattiamo in esseri simili a noi che abitano enormi metropoli. Non tutti vedono di buon occhio l’arrivo di noi prodi affaticati e spaesati eroi, tuttavia nella città dove siamo capitati ci ritroviamo in un posto piacevole: un ampio spazio aperto poco fuori dal centro abitato dove si svolge uno strano rituale del luogo.

Gli abitanti arrivano pochi alla volta e si accumulano davanti a una complessa struttura metallica con strani simboli indecifrabili (probabilmente scritte), dove ogni sera salgono personaggi diversi. Questi si muovono e manipolano con pathos oggetti multidimensionali che producono onde sonore. L’effetto di questa sorta di rito sciamanico causa effetti diversi sui presenti: alcuni ridono e saltano, altri ondeggiano con le palpebre abbassate, altri ancora iniziano a spintonarsi violentemente fino a procurarsi lividi e ferite. Molti di loro reggono piccoli recipienti trasparenti, strabordanti di liquidi colorati che assumono per via orale.

Probabilmente non è troppo diversa da questa, l’impressione che può aver avuto Alidou durante il suo primo giorno allo Sherwood Festival di Padova.

È un trentenne proveniente da un piccola comunità del Benin, dove ha lasciato una moglie, tre figli, i genitori e sei fratelli. Sicuramente non gli era mai capitato prima di assistere a un concerto in un festival del genere, con persone che bevono bibite e cocktail, ballano, saltano e “pogano”.

Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 – Padova)

Lui è l’unico dei richiedenti asilo che collaborano a Sherwood che presta servizio nel bar centrale, sfida non da poco considerando che è qui da pochi mesi, non parla una parola di italiano, non sa leggere e, essendo mussulmano, non ha mai avuto a che fare con sostanze alcooliche. E poi le tre lunghe cicatrici che ha sul volto destano non poca attenzione. È parte di un rito di iniziazione della sua cultura, ma ovviamente la prima causa a cui le spontaneamente le attribuisci sono torture disumane, sanguinosi massacri e guerre di chissà dove. Non pochi clienti gli chiedono cosa gli sia successo in faccia.

Al di là di ogni aspettativa in meno di una settimana ha imparato a fare praticamente tutto, dalla birra bionda grande alla rossa doppio malto piccola servite con la giusta quantità di schiuma, a fare il caffè, bibite, vino e addirittura spritz, chiedendo ai clienti “Aperol?” con un simpaticissimo accento africano. Passi da gigante, visto che la prima sera tentava spaesato di leggere gli scontrini al contrario. Altro che fantascienza!

Alidou, come molti degli altri richiedenti asilo che lavorano al festival, è un volontario, tra i tanti giovani e meno giovani che ogni anno rispondono all’appello di Sherwood per collaborare al festival.

I ragazzi di origini africana che a vario titolo e con attività e mansioni diverse fanno parte della grande “crew” del festival sono circa 60. La maggior parte grazie alla collaborazione con alcune cooperative che li ospitano, altri sono qui perché li abbiamo conosciuti in questi anni.

Distribuiti in alcuni stand del festival, ai parcheggi o impiegati nelle pulizie notturne stanno facendo attività formativa e socializzante. Per alcuni è anche un’occasione di lavoro.

Ma Alidou come tutti gli altri 60 ragazzi è in attesa. Del colloquio con la commissione territoriale o in attesa di ricorso. L’attestato che riceve dopo aver fatto questo percorso formativo può tornare molto utile.

Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 – Padova)

Imparano con una velocità e una forza di volontà disarmanti! Vengono introdotti a lavori a volte lontani anni luce da ciò che facevano nel loro Paese. Sono meravigliosi i sommelier africani che versano con tanto di grembiulino nero i vini pregiati dello stand dell’enoteca in eleganti calici di vetro. In enoteca sono otto, perché è gestita dalla scuola di italiano, Libera la Parola di Padova.

Mustafah, impiatta pasticcio di radicchio e pancetta, polpette vegetariane e altre prelibatezze da dietro i suoi occhiali rotondi. Mi racconta che è la prima volta che svolge questa attività, che in Sierra Leone era muratore. Professionalmente interrompe la nostra conversazione per servire un cliente. Anche la clientela stessa, forse involontariamente, svolge un ruolo fondamentale nel processo di integrazione: considerano le persone che si trovano davanti sono camerieri prima che rifugiati. Incredibile che cosa non faccia un grembiule! I rifugiati sono trattati da tutta l’utenza di Sherwood esattamente come gli altri volontari, con un occhio di riguardo da parte dei clienti più sensibili (che a volte si fermano addirittura a complimentarsi e stringere le mani) ma anche con un po’ della classica impazienza dei più frettolosi.

Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 – Padova)

Mustafah continua a raccontarmi del suo viaggio lungo Guinea, Mali, Burkina Fasu, Niger e Libia. Conclude la sua storia ridendo soddisfatto: per due settimane ha partecipato al corso professionalizzante di formazione pizzaioli (disponibile sia di base che avanzato). Ha orgogliosamente ottenuto l’attestato di frequenza. E le pizze di Sherwood sono davvero buone!

Alcuni aiutano nei montaggi (spesso hanno già il permesso di soggiorno e lavorano per Città Invisibile, cooperativa sociale che si occupa di allestire palchi, gazebi, strutture, impianti audio e luci, valorizzando il mutualismo e la solidarietà). Altri ragazzi ancora stanno ai cancelli e nel parcheggio per il servizio di vigilanza. Sono proprio questi ultimi che assicurano nella periferia di Padova, quella sicurezza e quel decoro che secondo i recenti decreti Minniti-Orlando i migranti sembrano mettere a rischio.

Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 - Padova)
Photo credit: Angelo Aprile (Sherwood Festival 2017 – Padova)

Kaba ha 30 anni e viene dalla Guinea. Quando gli chiedo se gli piace Sherwood esordisce con una frase che potrebbe porre in discussione una vasta fetta delle politiche di integrazione messe in atto in questo momento.
Ai neri piace essere neri”.

Integrazione non significa assimilazione. Il bello di Sherwood è che non nega le differenze, per assicurare uguali diritti non appiattisce tutto sullo stesso piano, i “neri possono essere neri”. Valorizza la diversità e vi si confronta con un ottica non miope. Diversità in tutte le sue forme: nati in Italia e non, giovani e meno giovani, bambini, famiglie, padovani e veneziani, senegalesi e ghanesi. Vige la legge dell’apertura, del leggere e lasciarsi leggere. Come scrive l’antropologo Francesco Spagna “lo straniero è dentro di noi”. Grazie ad un reale contatto e una solida collaborazione verso un obbiettivo comune , ci si riscopre più simili di quanto non si immaginasse, accomunati dalla stessa umanità di fondo. Stessi geni e stessi gusti musicali, stessi antenati e stessi orari di lavoro, stessa fame e stessa cena, stesse emozioni e stesso bicchiere di Coca Cola.

Sono proprio i richiedenti asilo a rilevare questo aspetto fondante del festival: i più esperti con l’italiano usano la parola “solidarietà” per descrivere la loro esperienza, sentendosi accolti in una “festa buona” come dice Vie, dal Mali, in cui si riceve un saluto da ognuno e tutti sono “a posto e gentili” come dice Thie, dal Senegal.

Nella variopinta foresta del parcheggio dello Stadio Euganeo, ci si sente a casa. In questo straordinario intrecciarsi di passati diversi, ci si sente accolti e protetti, perfettamente al proprio posto in un cammino verso lo stesso futuro.

Ma cos’è casa? Thie risponde prontamente, sfoggiando un’ampia gamma di termini italiani: “secondo piano, una camera con letto, finestra, armadio, comodino, televisione, cassa per musica…”. Semplice, come la pizza margherita che Johnson ha appena sfornato.

Link utili:
Fotografie di Angelo Aprile
a cena con amici…..
Pizza course in the world