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Sintesi di due viaggi ai confini tra Bosnia e Croazia

Di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi

Questa è la facciata del “Dom”, l’edificio che il comune bosniaco ha deciso di adibire come “rifugio” per le persone migranti. Il palazzo non è mai stato finito di costruire: mancano scale, finestre, porte, servizi igenici. All’incirca 600 persone, tra cui minori, sono costretti dalle circostanze e dalla mancata accoglienza Europea a vivere in questi stabile – Foto di “One Bridge To Idomeni”

Siamo stati due volte ai confini tra Bosnia e Croazia, dall’1 al 3 giugno a Bihac, dal 15 al 17 giugno di nuovo a Bihac e Velika Kladusa, le due località dove si sono formati nuclei di profughi che premono sui confini tra i due paesi. Ci siamo accompagnati come volontari indipendenti all’ong One bridge to Idomeni, che ha iniziato un intervento regolare a Bihac. La prima volta a scopo informativo, la seconda volta con aiuti in materiale e soprattutto in denaro che abbiamo consegnato alla Croce Rossa di Bihac (Crveni Kriz Grada Bihaca).

Domenica 17, ci siamo spinti, inoltre, fino a Velika, nello stesso cantone di Una-Sana, distante da Bihac una cinquantina di chilometri di strada tortuosa. A Velika abbiamo incontrato un amico, operatore professionale, attualmente attivo in quella cittadina, incaricato dalla Regione Trentino-Alto Adige di fare un monitoraggio in Bosnia.

Bihac, capoluogo di uno dei 10 cantoni, dotati di notevole autonomia, della Repubblica di Bosnia-Erzegovina, è una città di 61.000 abitanti (2013), a circa 16 chilometri dal confine, con vistose tracce della guerra, sulle rive del bellissimo fiume Una. Nell’ambito del comune, fonti ufficiali stimano circa 1500 rifugiati; nell’ambito del cantone, circa 3.000 (ma i numeri cambiano continuamente).

Noi abbiamo visitato la principale struttura – si fa per dire! – di Bihac: un grosso edificio chiamato Dom, rimasto incompiuto per la guerra, del tutto in rovina e molto pericoloso per i piani ed i balconi privi di protezione oltre che per i grandi buchi nei pavimenti in cui chiunque può cadere in modo disastroso. L’avevamo frequentato nel primo viaggio durante giornate splendenti che rendevano la fatiscenza meno apparente. In questo frangente invece, il cielo era cupo e carico di pioggia: dai soffitti la pioggia colava all’interno penetrando nei piani sottostanti dove sono ammassate, con tende o senza dalle 500 alle 600 persone. Il comune ha impiantato l’elettricità e collocato servizi igienici, gabinetti e docce, in numero del tutto inadeguato – c’è un solo rubinetto per l’acqua -, sorvegliando il tutto con la polizia, peraltro piuttosto tranquilla.

In questo luogo, nel principale parco cittadino, sopravvivono, afgani, pakistani, siriani, iraniani, curdi, iracheni… Famiglie intere con molti bambini, anche piccoli e piccolissimi. Tutti puntano verso l’Europa, molti verso l’Italia. Continui sono i tentativi, sempre più difficili, di varcare i confini, cosa di cui siamo stati anche diretti testimoni. I rapporti fra le diverse provenienze ci sono apparsi piuttosto tranquilli e composti, nella comune condizione di sopravvivenza, cordiale e affettiva l’accoglienza per i visitatori.

I tentativi di attraversare il confine da parte di gruppi, famiglie e individui sono molto frequenti, quasi sempre fallimentari. La sorveglianza ai confini non solo aumenta continuamente ma si esplica ad un livello altamente specializzato in strategie e tecniche di individuazione dei profughi. Quando i “clandestini” vengono scovati, la polizia croata ed anche quella slovena provvede alla loro puntuale deportazione in Bosnia o in Serbia, il che fa ipotizzare all’esistenza di un efficiente sistema di schedatura. Questo succede anche qualora il profugo chieda asilo in Croazia o in Slovenia; in violazione alla normativa internazionale la domanda di asilo non viene considerata. L’arresto, invece, si accompagna alla privazione di ogni bene (fra cui denaro ed effetti personali) e alla sistematica frantumazione del cellulare, con la conseguente impossibilità di usare mappe satellitari per orientarsi nei boschi.

In Slovenia, a 15 km dall’Italia, noi stessi abbiamo incrociato lungo il bordo della strada in Slovenia una famiglia afgana stremata con problemi di slogature, di scabbia, di ipotermia e astenia dovuta agli ultimi quattro giorni piovosi trascorsi nella foresta . Padre madre e figlia sedicenne erano stesi a terra sotto i riflettori della polizia la quale, anziché portarli in ospedale e accogliere la loro domanda di asilo, li ha caricati su di un furgone giunto appositamente, deportandoli in Bosnia. In questo secondo viaggio, li abbiamo infatti ritrovati a Bihac da dove erano partiti. Padre, madre e figlia erano accampati al primo piano del Dom in una tendina igloo, accanto ad un numeroso gruppo di iraniani. La ragazzina ci raccontava, con gli occhi lucidi, i suoi sogni di una vita normale, il padre, con estrema dignità, ci chiedeva di dire al mondo tutta l’ingiustizia che stavano subendo. Il gruppo vicino degli altri profughi, composto da famiglie fra cui una ragazza incinta, aveva tentato tre sere prima di sconfinare in Croazia. Fra loro otto erano bambini, fra cui un neonato. Gli uomini erano professionisti: studenti, vigili del fuoco, insegnanti, carpentieri. Purtroppo sono stati scoperti e rimandati indietro. Una coppia giovane era in preda ad una crisi di sconforto: non riusciva a capacitarsi di tanto accanimento verso chi, come loro, era fuggito a causa della persecuzione politica.

A una decina di chilometri dal confine con la Croazia, abbiamo inoltre incontrato un’altra coppia che tornava indietro dopo l’ennesimo tentativo fallito di passaggio. Le volte precedenti, dopo essere stati puntualmente scoperti, erano stati trattenuti dalla polizia croata, derubati di tutto, dell’orologio, della fede nuziale, dei soldi e sottoposti a umiliazioni. I loro cellulari erano stai frantumati appositamente sotto le ruote del blindato. Avevano perso tutti i loro contatti ed ora, senza cellulare, non avevano altra possibilità per orientarsi nei boschi. Ci dicevano: “siamo dentro questo inferno ma non poso credere che questa sia la vita vera, non può essere la vita vera, è solo un terribile incubo”

I tentativi non cesseranno… è l’unica speranza che tiene in vita questa massa di disperati.

Noi abbiamo collaborato con la Croce Rossa, il cui personale, composto quasi tutto da volontari, si impegna in maniera assai notevole per serietà e costanza e anche capacità relazionali, in una situazione veramente al limite. La Croce Rossa fornisce un pasto giornaliero – una minestra con pezzi di carne e pane e un po’ di colazione (!) – all’interno dell’edificio, su tavoloni poi smontati. I mezzi della Croce Rossa sono dovuti esclusivamente ad aiuti locali, cui da poco cominciano ad aggiungersi aiuti internazionali. Recentemente la Croce Rossa ha tenuto una conferenza stampa per denunciare l’enorme difficoltà nel proseguire l’intervento, ottenendo dal comune di Bihac la promessa di 10.000 marchi (circa 5.000 euro).

Una cosa che colpisce è l’atteggiamento tollerante, non ostile, della popolazione, e anche della polizia, nei confronti dei rifugiati, che girano senza problemi nella città, nei bar e anche nei ristoranti (ovviamente nella misura del loro peculio, ma una pizza o un riso costano pochissimo). Sarà certo la comune cultura islamica, forse anche il recente ricordo, inciso negli edifici cittadini, di una guerra terribile, tuttavia questo atteggiamento è palpabile. Questo fa una differenza. Se così non fosse, se fosse come a Pordenone o a Gorizia, ad esempio, la situazione virerebbe rapidamente al tragico.

E’ molto probabile che la Repubblica bosniaca venga foraggiata dall’UE perché trattenga e mantenga (!) questi profughi (si parla di circa 6.000, certamente in aumento), ameno per un periodo.

La mattina di domenica 17 giugno, siamo partiti da Bihac per Velika Kladusa, circa 40.000 abitanti, a pochi chilometri dal confine con la Croazia. Abbiamo visitato, con la guida del nostro amico, un piccolo centro di profughi, nel luogo del dismesso macello comunale, che con due altri volontari, un italiano e una polacca, sta cercando di rendere usufruibile. Lì vivono alcune decine di persone in due container fatiscenti. Qualche centinaio di metri più in là, veramente a ridosso del confine che passa intorno a colline boscose, c’è un accampamento di circa trecento profughi, con tende e ripari di fortuna: numerose le famiglie con bambini. Il campo è sorvegliato, all’ingresso, da un dipendente del Comune che, tuttavia, non impedisce a nessuno di entrare. La polizia di frontiera sorvola invece la zona con due elicotteri facendo la spola da Velika a Bihac.

In questa domenica di giugno in cui siamo giunti al campo, aveva piovuto molto. Il terreno era fangoso, l’umidità risaliva avvolgendo in una cappa umida qualsiasi cosa lasciando addosso una sgradevole sensazione di appiccicaticcio. Ovunque piccoli fuochi per cucinare improbabili minestre che producevano un fumo denso sprigionato dai rami e dal legno bagnato. Una ragazzina cercava di tagliare un enorme ceppo con una sega che non sapeva neppure tenere tra le sue esili mani. Un bambino correva con un ombrello giocando a bruciarlo con le fiammelle di un fuoco abbandonato. Non aveva le scarpe e il fango aveva creato delle croste nei suoi piedini. Un altro maschietto ci ha preso per mano e portato in giro fra le tende desideroso di giocare e farsi toccare ed accarezzare. Le donne, uscite dai loro gusci di tende ci invitavano a bere il thè e ad ascoltare le loro storie di disperazione. Quasi sempre l’unica domanda era: perché non ci vogliono? Quando aprono il confine? Poi, con le lacrime trattenute, si ricomponevano in un muto dolore. Ci hanno mostrato i loro neonati, offerto i loro sorrisi e la loro cordialità. Abbiamo trovato una dignità enorme in quel fango, in quella melma di campo.

Le varie etnie ammassate nel campo, sono raggruppate in modo clanico. Spesso, scattano tensioni importanti. I fattori stressanti – disperazione, fame, deprivazione, traumi – provocano conflitti che possono facilmente degenerare. Tre giorni fa un ragazzo di 23 è stato ucciso per futili motivi. Questo fatto ha creato una reazione negativa nella popolazione di Velika altrimenti ben disposta verso i rifugiati. Alcuni negozi si stanno rifiutando di farli entrare anche se, in generale, nella comunità bosniaca c’è una certa solidarietà. Ciononostante, mancano i medici per queste trecento persone, per le donne in gravidanza, per i bambini e i neonati del campo. Le donne non possono permettersi gli assorbenti, i bambini non hanno i pannolini, non hanno scarpe adatte ai loro piedini; gli uomini lamentano la mancanza di rasoi per la loro pulizia quotidiana. I 3 bagni chimici, essendo privi di manutenzione, sono inaccessibili e terribilmente maleodoranti.

Quasi nessuno si avvicina a questo campo forse a causa della mancanza di un’organizzazione o di una gestione riconosciuta, capace di strutturare eventuali aiuti

Vi interviene bravamente, tuttavia, un’associazione locale, SOS team Kladusa, e pochi volontari internazionali. C’è anche l’associazione cattolica Emmaus, che però, come abbiamo avuto modo di constatare, si limita ad abbandonare nel campo sacchi di vestiti, attirando una ressa da cui esce vincitore il più forte, il più furbo. Nessuna donna oserebbe avvicinarsi ad una zuffa tale.

Un esempio negativo di aiuto, il quale dimostra che, senza la capacità di entrare in relazione, portare materiali è veramente misera cosa.

Anche qui e forse di più che a Bihac i tentativi di passare il confine sono frequenti e difficilissimi. Quando eravamo lì, un gruppo tentava di raccogliere un numero di persone sufficiente a compiere una sorta di irruzione oltre il confine, nella speranza – supponiamo – che almeno alcuni riuscissero a passare – tentativo, peraltro, già altre volte respinto.

Sappiamo che autorità centrali stanno costruendo un campo a Polje, vicino a Velika, dove vorrebbero concentrare tutti i profughi di Velika e Bihac ma, sappiamo dai profughi stessi, che quasi nessuno vorrà andarci per non perdere l’ultima speranza a ridosso del confine con la fortezza Europa.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".