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Torture in Libia: violenze e abusi noti da tempo, ben prima degli accordi tra l’Italia e le autorità libiche

Intervista a Emilia Corea dell'Equipe Multidisciplinare per l’emersione, la diagnosi e la presa in carico dei richiedenti e titolari di protezione internazionale vittime di tortura

Photo credit: Alessandro Rota, Oxfam Italia

Emilia Corea è la referente per l’Associazione La Kasbah dell’“Equipe Multidisciplinare per l’emersione, la diagnosi e la presa in carico dei richiedenti e titolari di protezione internazionale vittime di tortura”, un progetto ambulatoriale attivo a Cosenza.
Qualche giorno fa l’ONU ha definito “disumana” la collaborazione tra l’Unione Europea e la Libia sconfessando di fatto anche gli accordi presi tra il solerte ministro Minniti e la governance (o una parte di essa) libica.
Abbiamo posto alcune domande a Emilia che non certo da ieri si è accorta delle violazioni e delle torture subite dai migranti lungo il loro viaggio.

Emilia, da quando, come Equipe Multidisciplinare, vi siete accorti che la situazione dei migranti, già di per se difficile, si stava trasformando in un dramma quotidiano?


Dal 2013, anno in cui l’equipe socio-sanitaria ha cominciato ad operare a Cosenza per l’emersione, la diagnosi, la presa in carico dei richiedenti e titolari di protezione internazionale vittime di tortura, oltre 400 persone hanno intrapreso un percorso di riabilitazione fisica e psicologica all’interno della nostra struttura. Le prese in carico effettuate tra 2012 e il 2016 erano perfettamente in linea con le percentuali emerse da rapporto stilato dall’Associazione Medici Contro la Tortura qualche anno fa, e mostravano un 40% di richiedenti e titolari di protezione internazionale presenti sul territorio italiano, sottoposti ad abusi, tortura e/o violenza estrema nei paesi di origine o durante il percorso migratorio.

Dal 2016, si è registrato un notevole incremento di persone sopravvissute a tortura durante la permanenza in Libia. Permanenza che significa, la maggior parte delle volte, carcere. Carcere che significa tortura sistematica, in quel paese. Sia essa inferta all’interno delle carceri governative o dei capannoni utilizzati dalle bande di ribelli per l’estorsione di denaro ai migranti provenienti dal Gambia, dalla Costa d’Avorio, dal Burkina Faso, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Senegal, dal Mali, dal Togo. Ciò che cambia è la scientificità con la quale la tortura viene inferta.

I militari e/o la polizia libica, fanno ciò che un bravo torturatore è addestrato a fare: infliggere il dolore più intenso senza lasciare troppi segni visibili sul corpo della vittima. Il prigioniero deve soffrire ma deve essere lasciato in vita. Affinché il suo esempio serva da monito alla popolazione, affinché si alimenti il terrore, la paura nei confronti dell’autorità.

Senza dimenticare la presenza del medico, durante le sedute di tortura. Presenza indispensabile perché solo un medico sa qual è il giusto voltaggio da utilizzare sul corpo della vittima senza provocare un arresto cardiaco. Sa quanti minuti la persona può rimanere sott’acqua senza che sopraggiunga il soffocamento. Sa quanto il detenuto può rimanere sospeso a una trave prima che si verifichi il dislocamento delle articolazioni e lo smembramento della colonna vertebrale. Le torture inferte dai ribelli, invece, sono più facilmente riconoscibili, i segni sono ben visibili. Solo negli ultimi quattro mesi, sono state effettuate oltre 70 nuove prese in carico di persone vittime di tortura durante il soggiorno in Libia.

Sappiamo, da fonti e documenti certi, che i migranti, nel loro passaggio in Libia, subiscono violenze di ogni tipo. Quali sono le torture comunemente riscontrate sul corpo dei pazienti?


Tra le torture maggiormente praticate in Libia, il primo posto spetta alla Falaka o Falaqa, o Falanga, antica pratica di punizione corporale consistente nella “battitura” delle piante dei piedi, spesso con dei frustini di caucciù, secondo quanto riferiscono i sopravvissuti. Questo tipo di tortura causa il danneggiamento dei talloni, dei tessuti molli del piede, causando dolore e difficoltà nella mobilità, anche a distanza di anni. La “battitura” determina, nell’immediato, un rigonfiamento della pianta del piede oltre che ematomi interni che impediscono la deambulazione per settimane. In tal modo, è più difficile che i prigionieri riescano a scappare dalle carceri prima che il riscatto per la loro liberazione venga pagato.

Altra forma di tortura, particolarmente in auge tra i macellai libici, è quella della sospensione, a una trave, a un ferro, a dei ganci posti generalmente in alto. A testa in giù, solitamente nudi, mentre gli aguzzini si adoperano nel percuotere violentemente il corpo del detenuto con bastoni, manganelli, fruste, pugni e calci. Dai racconti dei richiedenti asilo in carico all’equipe emerge che anche la tortura da elettrodi è largamente utilizzata in Libia. I cavi elettrici vengono apposti sul corpo del detenuto, generalmente sulla testa, sui genitali o tra le pieghe delle dita. Altre volte vengono costretti a immergersi all’interno di vasche di acqua dove vengono inseriti i cavi di corrente. E poi la più classica delle torture: la violenza sessuale, praticata soprattutto nei confronti delle donne e dei minori. Tutti i richiedenti asilo in carico all’equipe di Cosenza, che all’epoca del loro soggiorno in Libia erano minori, hanno riferito di essere stati stuprati all’interno delle carceri libiche.

Quanto profonde sono le ferite psicologiche di chi subisce tortura e qual è il vostro lavoro per riabilitare suddetti pazienti?

Scriveva qualcuno: “chi è stato torturato, rimane torturato. Chi ha sentito sulla propria pelle l’umiliazione della tortura, non potrà mai più ambientarsi nel mondo”. E’ difficile che si riesca mai a guarire completamente. L’orrore è sempre vivo, accompagna la persona in qualunque momento della giornata. A volte il trauma viene reiterato da alcuni elementi scatenanti. Anche la sola vista di una persona in divisa (sia esso un poliziotto, un militare o, addirittura, un controllore dell’autobus) può scatenare sintomi di angoscia, di dolore, di paura nella persona che ha subito tortura. Così come una porta che sbatte, un tono di voce troppo alto, una chiave che gira nella toppa. Senza dimenticare che spesso sono i contesti di accoglienza ad aggravare la vulnerabilità, il trauma preesistente. Nei centri di accoglienza straordinaria, nei CARA, ma soprattutto al momento dello sbarco, i migranti subiscono l’impatto di trovarsi di fronte a persone in divisa, ad eseguire, senza comprenderne il significato, ordini perentori. Tutto questo non fa che aggravare il disagio, il dolore, la sofferenza della persona, non fa che rievocare la violenza subita. Disagio che si esprime generalmente in un’aumentata reattività fisiologica, nell’alterazione del ritmo sonno-veglia, nella ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme, nella difficoltà di attenzione e concentrazione, nei vuoti di memoria e nella difficoltà di cronologia degli avvenimenti traumatici vissuti con tensione psichica e ansia, con mialgie agli arti e vissuti del pensiero di tipo depressivo, con alterazioni dell’immagine di sé e con costante disistima, con angoscia. Tutto ciò che viene definito “Disturbo post-traumatico da stress”.

Da anni oramai lavori all’interno dell’Equipe Multidisciplinare; c’è una storia di migrazione in particolare che ti ha colpita per la sua drammaticità ma anche per la speranza di un riscatto sociale?

Un mese fa ho fatto, come sempre, un colloquio relativo alla raccolta della memoria personale e all’emersione del trauma da tortura e, a differenza di quanto avviene di solito, il suo racconto mi ha particolarmente angosciata, forse più per il tono di voce che per il male raccontato. Purtroppo succede, nel nostro lavoro, che ad un certo punto sopraggiunga una sorta di assuefazione all’orrore.
Per quanto mi è possibile cerco di resistere a questa sensazione, non voglio “abituarmi” alla mostruosità, all’orrore di quanto mi viene raccontato. Cerco di tenerlo dentro di me, di ricordare ogni singola sfumatura, ogni particolare del racconto. Se non altro perché lo devo alla persona che decide di rendermi partecipe del suo dolore. Il ragazzo in questione, minore al tempo della prigionia in Libia, mi raccontava di essere stato portato, durante la notte, nella stanza predisposta per le torture. Riferiva che tutte le volte che una persona veniva portata in quella stanza, ritornava con un biscotto in mano e particolarmente silenzioso. Gli altri capivano, così, che era stato abusato sessualmente.

Mi raccontava che nella prigione di Jawya si entra nudi e, già in quell’occasione spesso si è sottoposti a una prima violenza. Che la prima volta era stato costretto a inginocchiarsi davanti a un militare, mentre altri due lo schernivano, e ad avere un rapporto orale con lo stesso. La volta successiva aveva subito invece un rapporto anale. Durante il racconto si era fermato più volte, perché non riusciva a raccontare la violenza. Mostrava inquietudine e sgomento, quasi come se nel ricordo stesse rivivendo la violenza subita. Poi aveva cominciato a piangere e aveva mimato la posizione che era stato costretto ad assumere, raccontando che fino ad allora non aveva mai immaginato che esistesse un modo simile per abusare di una persona. Un altro mi raccontava, invece, che all’arrivo era stato portato in una stanza e che i militari gli avevano dato un telefono per telefonare ai suoi familiari e chiedere il pagamento del riscatto. Quando aveva detto loro di non avere più una famiglia lo avevano costretto a sdraiarsi per terra, le gambe rivolte verso un grosso palo e legate alle due estremità da una corda che veniva tirata ai lati da quattro militari e, in tal modo, si era ritrovato appeso a testa in giù. A quel punto avevano cominciato a picchiarlo, soprattutto sotto alle piante dei piedi e sugli organi genitali fino a stancarsi. Dopodiché avevano mollato le estremità e il corpo era ricaduto pesantemente sul pavimento. Poiché la pressione esercitata e la posizione costretto ad assumere fa affluire il sangue in direzione della testa, l’impatto con il pavimento era stato particolarmente doloroso e aveva perso molto sangue. Delle violenze riferite dalle donne preferisco non parlare in questo momento. Non riuscirei a farlo con il dovuto distacco, tanto è inimmaginabile l’efferatezza provata dalle donne nelle carceri libiche.

Redazione

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Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.