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Un giorno mi scoppierà il cuore

Le lunghe attese dei richiedenti asilo e l’accoglienza malata

Photo credit: Claudio Colotti (Roma, 10 novembre 2018 - Manifestazione nazionale contro il DL Salvini)

Alzò lo sguardo. Sotto il berretto che pendeva troppo da un lato, due occhi color del mare guardarono verso un punto indefinito. Persi chissà dove, quel loro celeste ricordava l’acqua tersa di Cap Bon di primo mattino, quando la spiaggia è deserta e il fondale limpido.

Erano due punti cerulei incastonati nella pelle olivastra con sfumature di rosso, solcata dalle rughe profonde, lunghe linee che partivano dagli angoli degli occhi e si irradiavano come ragnatele per tutto il viso.

Aveva il volto segnato dei contadini, di chi ha lavorato a lungo la terra ed è arso dal sole, anche se lui, in verità, non lo era mai stato. La vita l’aveva sempre trascorsa in città, ma la luce del posto non perdonava, e a forza di strizzare gli occhi abbacinati la pelle gli si era marcata. In quelle righe, si contavano una per una le volte che aveva chiuso gli occhi, prima per il troppo sole e dopo per ciò che non aveva voluto vedere. Ogni volta aveva sperato che le palpebre abbassate e le lacrime si fossero portate via tutto. La pelle quasi bruciata e illuminata da quell’azzurro ricordavano il suo paese, la terra color ocra che si perde a vista d’occhio fino al Mediterraneo.

Haythem guardò, e non guardò. Guardò e non vide niente. La ragazza era seduta di fronte a lui. Gli occhi gli ballavano. Di tanto in tanto cercava di posarli su di lei, ma quelli sfuggivano e andavano oltre, fino a non fargli vedere più nulla. La ragazza lo chiamò una volta, e poi una seconda.

Haythem allora si girò verso di lei, sforzandosi di darle tutta l’attenzione di cui era capace, almeno fino al prossimo colpo di vento, alla prossima folata di pensieri ammucchiati che se lo sarebbe portato via per altri lunghi minuti.

Erano le sei di pomeriggio, faceva freddo e lui ordinò un cappuccino, come si usa dalle sue parti. Dopodiché si accese l’ennesima sigaretta, per concentrasi, o almeno così gli sembrava. La mano gli tamburellava sulla gamba, incapace di fermarsi.

Haythem sembrava portarci il tempo di quel cuore che gli galoppava in petto, così forte che a lui sembrava di perderselo.

Lo angosciava questo pensiero, e allora battere i polpastrelli lo aiutava a sentirne il ritmo, a dargli una qualche illusione che lo avrebbe controllato, che non si sarebbe fermato a sua insaputa. “Mi scoppierà un giorno”, diceva mentre si toccava il petto, “come questa testa”. Altre metafore Haythem non le conosceva. Tutto era sangue, esplosioni, ferite.

Era un fascio di nervi. Non parlava, urlava. Nemmeno lo faceva apposta, ma la voce gli si alzava da sola, come se fosse sempre in mezzo ad una folla di persone, e dovesse lanciare la sua più in alto, più lontano, per farsi ascoltare. Ogni parola che gli veniva fuori lo scuoteva, gli costava uno sforzo enorme, e non ancora aveva finito di tirarla via che il mare dei suoi occhi era tornato immobile, di nuovo perso in un punto lontano. Non aveva nemmeno quarant’anni. Eppure, come per i contadini del sud, il volto consumato lo invecchiava almeno di un’altra dozzina di anni.

Haythem non era sempre stato così. Aveva viaggiato per mezza Europa. Era stato al nord, ci aveva lavorato. Ci era andato negli anni duemila, quando ancora si poteva arrivare nel vecchio continente con un volo aereo e un visto, e le cose sembravano essere più normali. Aveva preso una casa in affitto, si era fatto i suoi giri, i suoi amici. Una vita, insomma. Ancora non riusciva a crederci di ritrovarsi qui, bloccato, in attesa di un documento che per arrivare, se mai glielo avrebbero dato, stava impiegando anni. Non ce la faceva a capacitarsene. Per lui era un dolore in più, si sentiva di aver fatto enormi passi indietro.

Quarant’anni e ancora viveva dentro un centro di accoglienza. Non solo, ci era dovuto tornare dopo una vita che sembrava ingranare. Il senso di fallimento lo stritolava. Non era colpa sua, ma riuscire a realizzarlo gli richiedeva una certezza di sé e una fiducia che s’erano perse ormai da tempo.

Guardava gli altri ragazzi poco più che ventenni, con i quali era costretto a dividere la stanza. Non li odiava, in fondo erano un po’ tutti sulla stessa barca, ma sentiva che tra i loro sorrisi e l’ansia che lo divorava c’erano quindici anni di vita vissuta e la consapevolezza che quello non era per lui, come invece per loro, il primo tentativo.

Allora se ne stava da solo, spesso si isolava. Di quella positività per lui inutile Haythem non sapeva che farsene. Stonava con tutta la sua storia, a tratti lo irritava, come se non si rendessero conto della realtà, della sua realtà, e delle traballanti speranze. In qualche giornata migliore riusciva ancora ad intenerirsi per la fiducia nella vita sincera e pulita di quei ragazzi, ed era come una ginestra che, scriveva Leopardi, arrivava a profumare persino il suo deserto.

Haythem guardò la ragazza, provò a metterla a fuoco, ma lo sguardo gli ondeggiò un po’. Nei suoi occhi passò una tempesta, la vista gli si fece scura, la testa riprese a fargli male. Eccolo che si riperdeva chissà dove tra i ricordi di casa sua, il nord Europa e quella stanza con quattro letti che gli sembrava un buco rispetto al mondo. Ogni volta che il pensiero gli finiva lì, gli sembrava di impazzire. La ragazza se ne accorse, e allora d’istinto gli prese le mani. Le strinse, come per trattenerlo con lei.

Le strinse fino a quando lui non riuscì a posarle di nuovo lo sguardo addosso. Le strinse fino a quando non fu sicura che riuscisse a vederla, come qualcuno che esce dal buio pesto, e ha bisogno di tempo per riacquistare la vista. Le strinse finché non sentì anche quelle di lui stringersi.

Cosa pensava Haythem forse è possibile immaginarselo. La cosa che gli rimaneva più difficile era trovare un senso a quell’attesa che sembrava non finire mai. A quell’attesa che di senso non ne aveva. Non chiedeva tanto, in fondo. Voleva essere libero di muoversi e trovare un modo onesto di tirare a campare. Di altri aiuti, non aveva bisogno. Voleva lavorare, semplicemente. Al paese che lo ospitava non domandava nulla, né un posto letto nel centro di accoglienza, né i 18 euro la settimana che gli passavano.

Non sapeva che farsene, di quei 18 euro. Voleva solo potersi muovere, senza temere di essere fermato. Di amici ne aveva sparsi un po’ dovunque, lo avrebbero ospitato all’inizio e poi si sarebbe trovato un posto per sé.

Se ad Haythem avessero detto che la sua attesa, la sua in particolare, era davvero un accanimento crudele, forse il cuore gli sarebbe davvero scoppiato. O forse sarebbe stata la goccia che lo avrebbe fatto uscire di sé, l’ultima martellata su quei nervi troppo a lungo scoperti e diventati ormai sensibili anche al proprio respiro.

Allora qualche scemenza l’avrebbe fatta per poi pentirsene subito dopo, perché lui è un uomo buono, finendo per compromettere anche le ultime possibilità di ottenere il famoso permesso.

Andateglielo a spiegare, ad uno arrabbiato così, ad uno che ormai ha perso ogni speranza e che non sa più fidarsi di nessuno, che deve stare calmo, che così non fa che peggiorare le cose.

Andateglielo a spiegare che se la sua vita è ferma, in quella stanza con quattro letti, è perché nessuno si è preso la briga di mandare una comunicazione alla questura che avrebbe sbloccato la data della sua prima udienza.

Andateglielo a dire che hanno deciso di tenerlo tre mesi in più lì, senza un motivo apparente. Che vuoi che siano, tre mesi in più.

Diteglielo ad uno come Haythem, ad un uomo buono, per cui tre mesi equivalgono a 200 caffè, 500 sigarette ed altrettante rughe che, oltre che in viso, gli si stampano sul cuore.

Haythem guardò la ragazza, accennò un sorriso e si calmò. La ascoltò parlare, senza urlare, parole che lui stesso avrebbe voluto tirare fuori. Oh, se quella calma gli fosse durata ancora un poco. La testa gli sembrò alleggerirsi per un momento, le cose ripresero un briciolo del loro senso, e la sua esistenza gli parve, seppure per un attimo, meno impossibile.

Si sarebbero salutati, e dopo sarebbe ricominciata la solita battaglia. “Lo faccio per te”, le disse, sapendo senza sapere che lo stava facendo per se stesso.

Sara Forcella

PhD in Civiltà dell'Asia e dell'Africa, è arabista, mediatrice culturale ed insegnante di italiano L2. E' inoltre presidente di Fuori Passo ETS, associazione che si occupa di mediazione, orientamento, servizi e formazione per persone con background migratorio.