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Una silenziosa resistenza

Riflessioni di lavoro con i migranti analfabeti

Photo credit: Carmen Sabello

E’ nata così, come una sfida. Come una di quelle cose quasi impossibili, che sanno molto di rischio e richiedono, perciò, una buona dose di incoscienza. Un rischio ricercato e calcolato insieme, ben consapevoli che, per vedere fin dove si può arrivare, per uscire dallo steccato, tocca per forza andare un po’ più in là, e osare mettere in discussione la presunta strada maestra finora battuta.

Si inizia sempre in questo modo con certi studenti, soprattutto con quelli più avanti con gli anni. Quando chiedi loro l’età non ottieni mai la stessa risposta, una volta sono 35, un’altra volta 38, ma guardandoli in faccia ci si rende subito conto che, di sicuro, ne hanno qualcuno di più. Non lo confessano, un po’ si vergognano di stare in mezzo alla classe di ragazzi poco più che ventenni, veloci come schegge ad imparare. I volti giovani che arrivano hanno già qualche esperienza scolastica alle spalle nei paesi d’origine, o altrimenti possono contare sulla mente fresca ancora agile, capace di assorbire come una spugna. In capo a qualche settimana sono lontani anni luce da quegli altri che sono lì da un anno, due, tre. Mosche bianche, inamovibili nella classe di volti che cambiano e non sono mai gli stessi, sempre davanti all’alfabetiere a spostare le lettere mobili. Nemmeno la soddisfazione di tenere la penna in mano per loro, forse dopo, gli viene detto, adesso è ancora presto.

Comincia a questo punto la sfida. Quando li si guarda negli occhi e nonostante l’età non più giovanissima, gli anni di scuola di italiano alle spalle e l’analfabetismo che pesa come una condanna, si decide di posizionare le pedine sulla scacchiera, con serietà, ed iniziare la partita. La posta in gioco è alta. Tanto alta che in molti rinunciano all’impresa. Pochi credono realmente possibile smuovere queste situazioni di analfabetismo cronico, di persone oltre i trentanni che non sono mai andate a scuola, che fanno fatica a concentrarsi e mantenere l’attenzione. E’ come se si dovesse abbattere uno scafandro, con un colpo di martello dopo l’altro far crollare, attraverso stimoli nuovi e intelligenti, la convinzione di avere la testa più piccola, chiusa, incapace di funzionare come quella degli altri, quelli che sanno leggere e scrivere. Per trasformare una resa in una speranza possibile.

D’altro canto, loro continuano a venire. Ci si immaginerebbe un giorno di non vederli più, frustrati dal continuo tentare per ritrovarsi sempre allo stesso punto. Stanchi di sforzi che non ripagano, imbarazzati dal non riuscire a ricordare anche le cose più semplici, ripetute già mille volte. Ogni giorno è un po’ ricominciare da capo. Eppure loro ci sono, si siedono ai tavoli, ostinati e testardi, come chi non vuole sentire ragioni. Forse non hanno niente di meglio da fare, non hanno altri posti dove andare, dice qualcuno, ma in quella caparbia presenza quotidiana c’è di più: una richiesta che è sempre stata lì, in paziente attesa, e aspetta solo di essere raccolta. Ha qualcosa di profondamente commovente la silenziosa resistenza, specie quando non fa rumore e non si fa notare. Va letta tra quelle righe che non ci sono ancora, ma si indovina nella serietà del viso, nell’atteggiamento dignitoso del corpo dritto e composto. Una tenace richiesta che era lì, dall’inizio, senza essere mai stata pronunciata.

Ezekiel ha 40 anni e un cappello in testa che non si toglie mai. L’ho conosciuto in una scuola di italiano per migranti all’inizio di quest’anno, ma lui era già lì da diverso tempo.

E’ un po’ schivo Ezekiel, lo sguardo che a volte se ne va lontano e non sai dove poterlo andare a riprendere. Non parla molto, risponde sempre a bassa voce alle domande della maestra, per l’imbarazzo di sapere di sbagliare, ancora prima di aprire bocca. E puntualmente va così, lui si confonde e le risatine dei compagni si alzano a ricordagli che la prossima volta è meglio se sta zitto. Allora anche Ezekiel sorride, per nascondere l’ennesimo imbarazzo. Quella testarda presenza, che resisteva allo sconforto e alla frustrazione continua, meritava però una risposta diversa. Un investimento di tempo ed energie per fare un lavoro puntuale, e constatare se era davvero era impossibile smuovere una situazione di stallo, o se forse, nella sua storia di studente di italiano, era mancato qualcosa. Ci si è seduti attorno al tavolo, senza dire niente ci siamo fatti una tacita promessa, che ci avremmo provato e, non importa quanto, sarebbe comunque stato un andare avanti. C’era l’idea di contrastare l’ipocrisia del fare assistenza che vede in ragazzi come Ezekiel dei casi persi, che in classe ci sono, ma a scaldare la sedia o accontentarsi delle briciole. Quando provai a parlarne con una collega mi disse proprio così, che era inutile darsi da fare perché era una lotta contro i mulini a vento: non avrebbero mai imparato davvero a leggere e scrivere, sarebbe stato impossibile tirarli fuori da quel bozzolo d’ovatta che ormai aveva convinto anche loro d’essere nati incapaci.

Prendere di petto l’analfabetismo non è un fatto semplice, al contrario è un’operazione complessa e dall’esito incerto, specie per la mancanza di risorse, e molte scuole operano a titolo volontario con i pochi mezzi a disposizione. Ma la sensazione che spesso si voglia chiudere con troppa fretta la pratica, che la fatica e il rischio da assumersi siano troppo grandi da preferire di accontentarsi delle supposte evidenze, spingeva a voler vedere meglio. C’è forse un’ambiguità di fondo nel continuare a tenere le persone in classe, se il pensiero alla base è questo: lasciarli abbandonati a loro stessi perché troppo difficili, finché reggeranno, finché non si stuferanno e molleranno come qualcuno va dicendo fin dall’inizio. Proprio loro che avrebbero bisogno di un attenzione continua, di un supporto costante e una didattica specifica. La letto-scrittura con i migranti adulti non è ancora una scienza esatta, è una disciplina nuova alla quale solo negli ultimi anni si è iniziato a dare la giusta attenzione, con fiorire di studi e ricerche. Al momento si sperimenta e si naviga a vista, consapevoli che si tratta di una partita importante giocata sulla pelle stessa della persone. C’è in ballo l’autonomia, l’indipendenza; la libertà di muoversi consapevolmente mettendo a fuoco ciò che si ha intorno. C’è in ballo la possibilità di dare voce a quella sapienza che altrimenti si fa sentire attraverso la pelle, nelle sensazioni vaghe o nei dolori del corpo, a volte immotivati, che i ragazzi lamentano.

La mamma di Albert Camus, il premio Nobel, era nata nell’Algeria francese; di origine spagnola, era totalmente analfabeta. Catherine, figlia del grande scrittore, parlando di sua nonna, racconta: “La difficoltà era far comprendere che qualcuno che è analfabeta non è per questo un idiota. Semplicemente, non aveva le parole. Era intelligente, parlava molto con le mani, aveva delle parole, ma parlava soprattutto con i gesti”.

Leggere, scrivere, e il pensiero critico che essi aiutano a sviluppare può fare della sapienza, il proprio bagaglio di conoscenza personale. Può dare fiducia all’intelligenza che già c’è, nata dall’esperienza di vita che ognuna di queste persone porta con sé.

A Ezekiel è stato proposto un lavoro nuovo, forse a volte un po’ pedissequo e ripetitivo. Ma lui sembra capire esattamente dove vogliamo arrivare. Avverte l’importanza di quanto si sta facendo, la serietà che gli riconosce l’intelligenza di poter ottenere qualche cosa di concreto. Ci vuole il tempo giusto, l’impegno giusto, facendo leva sulle risorse presenti, trovando il modo di farle fiorire. Per allontanare il fantasma dello scoramento che appare solo quando si smette di vedere la realtà. E ci si dimentica da dove si era partiti.

Sara Forcella

PhD in Civiltà dell'Asia e dell'Africa, è arabista, mediatrice culturale ed insegnante di italiano L2. E' inoltre presidente di Fuori Passo ETS, associazione che si occupa di mediazione, orientamento, servizi e formazione per persone con background migratorio.